Il paradosso della libertà
Questo post nasce da un commento su Twitter che potete leggere nello screenshot qui sotto.
Si tratta di una frase estrapolata dal discorso del premier Mario Draghi in occasione della commemorazione di Beniamino Andreatta, esponente della sinistra democristiana, creatore dell’Ulivo (l’antesignano dell’attuale Partito Democratico) e da ministro del Tesoro, fautore nel 1981 del divorzio tra la Banca d’Italia e Via XX Settembre attraverso una lettera inviata all’allora governatore Carlo Azeglio Ciampi. Fino a 40 anni fa, infatti, Palazzo Koch comperava senza nessun limite il debito dello Stato, rimasto invenduto, garantendo il deficit. Da quel momento in poi, invece, è stato il governo a doversi prendere in carico la responsabilità di collocare Bot e Btp, cioè di renderli appetibili e convenienti in base alle politiche economiche attuate. La storia di questo cambiamento viene spiegata con dovizia di particolari dall’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica diretto da Carlo Cottarelli.
La glossa della Cattolica ci fa comprendere quale fosse la posta in gioco. Non si trattava dell’elevato debito pubblico (che nel 1980 era al 56% del Pil), ma di fermare un’inflazione galoppante che aveva raggiunto il 20% annuo e che minava nelle fondamenta tutto il sistema economico nazionale. Impedire alla banca centrale di garantire il debito ad libitum (circostanza che sarebbe divenuta realmente efficace con la nascita dell’Eurosistema, anche se il sistema Sme di cambi fissi in voga al tempo gli assomigliava molto) significava imporre alle centrali di spesa una morigeratezza che alla maggioranza dei democristiani e dei socialisti (e anche al sottogoverno comunista) era del tutto sconosciuta. Un obiettivo fallito visto che nel 1990 il debito raggiunse il 90% del Pil, cioè a 12 anni dall’entrata in vigore dell’euro l’Italia aveva già i conti fuori controllo.
La questione del «divorzio» di tanto in tanto ritorna agli addetti ai lavori in quanto per una parte politica – non certo minoritaria – è emblematica di perdita non solo della sovranità monetaria (battiamo tanta moneta quanto è necessaria finanziando il debito; ndr) ma anche della sovranità politica sull’economia. Non a caso il «divorzio» fu il casus belli della «lite delle comari», scoppiata tra Andreatta e il ministro delle Finanze, il socialista Rino Formica, che propose un sostanziale ripudio del debito per far fronte alle necessità di finanziamento dello Stato sociale.
E qui veniamo allo specifico del commento di Erasmo da Narni. Draghi ha lodato la capacità di Andreatta di essere «impopolare» per attuare una «politica necessaria». Ebbene, Erasmo da Narni non ha centrato il quid della controversia. Andreatta non ha agito al di fuori della democrazia. E il motivo è tutto nella nostra Costituzione, articolo 75 comma 2.
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
A parte il fatto che il «divorzio» non è mai stato codificato in un atto avente forza di legge, quand’anche lo fosse stato non avrebbe potuto essere sottoposto allo scrutinio della volontà popolare perché la stessa legge fondamentale sottrae alla sovranità popolare la possibilità di deliberare in tema di economia, di amnistia e indulto e di ratifica dei Trattati internazionali. Motivo per il quale non solo non possiamo disquisire della sovranità economica ma nemmeno dell’uscita dall’euro e dall’Unione Europea senza una riforma della Costituzione che, come molti sanno, è pressoché impossibile senza una maggioranza dei due terzi del Parlamento che eviti un referendum confermativo dagli esiti incerti. Per converso, la sovranità popolare nei confronti delle politiche economiche si esplica (come in numerosi altri ambiti) nella selezione dei rappresentanti, cioè attraverso le elezioni.
Appurato che non vi sia stata nessuna violazione dei diritti fondamentali, occorre analizzare un altro risvolto di questo episodio di «democrazia a sovranità limitata». L’intento di Andreatta, infatti, era una «spinta gentile» alla sua classe politica (ma anche all’opinione pubblica) affinché si orientasse verso misure di stampo deflattivo. È un argomento che già conosciamo perché l’abbiamo affrontato circa quattro anni fa. Attualmente ne abbiamo tanti esempi sotto gli occhi e meno sofisticati rispetto a quanto attuato dall’ex ministro democristiano. gli eco-incentivi per le auto elettriche o a ridotte emissioni di CO2 oppure il famigerato green pass. Come d’uopo in questi tempi senza direzione, senza spirito, senza etica, è obbligatorio manifestare la mia posizione: sono vaccinato con entrambe le dosi e ho il mio green pass. E però ci dobbiamo porre una questione che lascio volentieri esplicare a un tweet dell’avvocato Rocco Todero, componente del comitato scientifico della Fondazione Einaudi (e dunque come liberale – oggi una rarità – degno del massimo rispetto e della massima attenzione).
Il governo che non ha gli attributi per distruggere il reddito di cittadinanza, per disintegrare Alitalia, per chiudere tutte le inutili partecipate, per fermare emorragia debito pubblico, si pone il problema del costo dei tamponi sulle spalle dell’erario. #Paraculi
— Rocco Todero (@RoccoTodero) September 16, 2021
L’avvocato Todero, dal mio personale punto di vista, ha ragione da vendere. Il green pass, infatti, limita la libertà di coloro che, per motivi personali, rifiutano il vaccino escludendoli, di fatto, dalla vita pubblica e dalla possibilità di accedere al proprio posto di lavoro. La mancata gratuità dei tamponi, inoltre, impedisce a chi -non vaccinato – non sia vettore di contagio di partecipare (se non a proprie spese) agli ultimi residui di koiné, per quello che questo termine può significare per chi, come me, crede fortemente nel valore dell’individuo.
Lo Stato, ci dice Todero, preferisce sperperare le proprie risorse anziché allargare per quanto possibile gli spazi di libertà. È uno Stato che paradossalmente preferisce sussidiare (e dunque creare vincoli di dipendenza, di sudditanza) anziché liberare i cittadini dai vincoli. E questo perché, nel caso in specie, la politica privilegia il punto di vista della scienza nella sua impersonalità, nel suo tecnicismo rispetto a quello dell’individuo e ne condiziona la vita in funzione del suo stato di salute. Come si evince da queste dichiarazioni della virologa Ilaria Capua.
E quando la politica diventa bio-politica interessandosi della dimensione biologica delle nostre esistenze (a prescindere da quelle che possono essere le intime convinzioni morali di ciascuno), il campanello d’allarme deve necessariamente suonare. Un argomento ben affrontato da Federico Punzi di Atlantico Quotidiano che ha elencato con minuzia le ragioni per le quali si possa affermare perché il green pass sia di fatto una negazione delle libertà individuali. Una circostanza descritta con ironia anche da Nicholas Farrell sullo Spectator. che cita Gustave Le Bon e la sua Psicologia delle Folle.
Tra le razze latine, la parola democrazia significa soprattutto l’annullamento della volontà e dell’iniziativa individuale in favore dello Stato. A quest’ultimo viene sempre più concesso il potere di gestire, centralizzare, monopolizzare e produrre. (…) Tra le razze anglosassoni, specialmente in America, la stessa parola democrazia significa, al contrario, l’intenso sviluppo della volontà individuale e la restrizione dei poteri dello Stato (…)
Qui siamo veramente nel cuore del problema che abbiamo affrontato in quest’analisi. Il green pass, pur essendo bio-politica, ha nel suo fondamento una motivazione economica: garantire che la produzione di beni e servizi non sia più interrotta da restrizioni e confinamenti. Una necessità organizzativa che diventa legge. Ma c’è bisogno di una legge per far funzionare lo spazio economico che, sulla carta, è il luogo del libero incontro tra la domanda e l’offerta? C’è bisogno di un lasciapassare per l’homo oeconomicus? Abbiamo bisogno di una validazione socio-politica del nostro status di produttori o di prestatori d’opera?
Non possiamo non rifarci a uno dei massimi teorici del liberalismo, il premio Nobel Friedrich von Hayek, strenuo difensore della libertà individuale e della sfera privata (sulla quale lo Stato non deve intervenire), ma al tempo stesso feroce critico nei confronti di coloro i quali confondono la libertà con l’arbitrio. Dunque, siamo liberi ma al tempo stesso consci che le nostre azioni comportano delle conseguenze. In un mondo perfetto non c’è bisogno di nessun green pass, ma ogni individuo è perfettamente consapevole dei rischi ai quali si espone e ai quali espone gli altri (anche per non limitarne la libertà). Il mondo nel quale viviamo non ci ritiene all’altezza di operare secondo questa discriminante. E, di certo, è difficile dare torto ai nostri governanti. Basta guardare uno dei recenti sondaggi politici.
Tra le prime 7 formazioni politiche ben sei non hanno alcunché di liberale nel loro dna e la maggior parte di esse ritiene che sia lo Stato a dover trovare risposte per ciascuna delle problematiche che di volta in volta si pongono all’opinione pubblica. Se questo è il punto di partenza, allora ci troviamo nella condizione che Hayek descrive come quella dello «schiavo che vive negli agi» come paradigma dell’individuo che non ha protensione alla libertà e vi rinuncia non avendone necessità. Insomma, un individuo che non si pone un problema di autocoscienza, per dirla con Hegel. Ci troviamo, così, nella condizione di chiudere il cerchio che abbiamo iniziato a tracciare parlando di «scelte impopolari» e «divorzio» tra Tesoro e Bankitalia. E lo facciamo con le parole di un economista autorevole che non era né liberale né liberista: l’ex ministro dell’economia e componente del board della Bce, Tommaso Padoa-Schioppa.
la scelta della stabilità appartiene alla società nel suo complesso, non alla banca centrale
Noi possiamo sostituire «individui» a «società», ma la sostanza del discorso non cambia. Senza consapevolezza, senza volontà di essere liberi (dalle costrizioni dello Stato come dall’inflazione o dalla scarsa crescita prodotta da uno Stato incapace di organizzare al meglio i fattori della produzione) il sentiero verso la schiavitù è ben tracciato.
Gian Maria De Francesco