Dire sulle pagine de The New York Review of books che leggere letteratura è un passatempo come un altro, e che non è assolutamente detto che questo stesso modo di trascorrere le ore debba renderci migliori, è come entrare in una curva al momento del derby cittadino e dire che il pallone è uno sport noioso per decerebrati. In entrambi i casi gli autori di questi gesti inconsulti, di queste bravate proditorie, rischiano grosso. Anzi, rischiano tutto.  La rivista americana è uno dei “salotti buoni” dell’intellighentia a stelle e strisce. Lì non ci si può permettere il lusso di mettere tutti sullo stesso livello. Per esempio non si può dire  in un simile tempio di cultura letteraria che non fa alcuna differenza se si legge Cinquanta sfumature di grigio o  Guerra e pace. Eppure, a volte, anche le cose più impensabili accadono. Sul sito della rivista americana è infatti comparso un articolo di Tim Parks dal significativo titolo Reading upward. L’occasione dell’articolo è stata una recente discussione che lo stesso Parks ha avuto con un famoso critico americano. Quest’ultimo aveva sostenuto con sprezzante bonomia: “Non mi interessa se i ragazzi di oggi leggono Harry Potter, Twilight o robe del genere. Fintanto che leggono c’è sempre una speranza che qualcuno di loro un giorno punti in alto lo sguardo verso qualcosa di maggior qualità”.

Ecco lo spunto.  Parks si avventura da qui in una disamina del problema. Esiste o no una relazione tra lettori di genere e letteratura alta? C’è una gradazione? C’è una emancipazione del lettore? E poi, questa emancipazione, serve davvero?

Il noto scrittore inglese raccoglie testi e testimonianze per dire che in buona sostanza leggere un bel giallo è solo un’attività disimpegnante. Il rigido canone impone atmosfere, escamotage e impalcature narrative che non fanno altro che confortare il lettore, rassicurandolo, dopo averlo emozionato. Tutto il contrario di quanto fa (o meglio dovrebbe fare) la buona letteratura. Che, laddove è potente e incisiva, disorienta, spiazza e sicuramente getta il lettore fuori dalla sua comfort zone per insegnargli qualcosa, per fargli vivere una nuova prospettiva. Tra i tanti esempi riportati Parks cita anche la confessione di un autore raffinato come Wynstan Hugh Auden. Il poeta britannico, infatti, era “schiavo” delle detective stories. Al punto da poter lavorare soltanto se nello studio non c’era nemmeno un titolo di quel genere.

Fin qui parole sacrosante. Almeno per me. Il punto resta, però, un altro. Parks a chiusa del pezzo propone una massima altrettanto scomoda: “Ciò che non si vuole accettare – e non c’è dubbio che in ciò risiede un elemento di pregiudizio –  è che ci sono tanti modi di vivere con intensità una vita piena e responsabile, e persino saggia, e molti di questi non passano per la grande letteratura. In fondo i lettori forti sono solo un gruppo di persone che hanno preso l’abitudine di leggere. Ciò li fa sentire meglio. E li fa sentire più ricchi e illuminati”. “Di sicuro, però, conclude Parks – non garantisce loro la chiave per proteggere la civilizzazione dal collasso e dalla decadenza”.

Mamma mia quanto pessimismo in questa chiusa! Non mi sento di sottoscriverla. D’altronde un pensiero strisciante si fa strada. Avete presente le confessioni degli scrittori o degli intellettuali? Quei racconti in cui ti dicono per filo e per segno come sono stati iniziati al magico mondo della cultura letteraria? Ognuno di loro ha sempre pronto un titolo altisonante, un nome prestigioso. Un autore di grido. O magari uno poco noto ma di qualità. Sciorinano insomma romanzi che si sono dimostrati all’atto pratico grimaldelli efficaci. Mai che uno di loro abbia detto di essere passato dai gialli di Simenon a Celine, dalla saga di Twilight a Philip Roth, da Dan Brown a Gilbert K. Chesterton.

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