Che Madame Bovary sia un romanzo da tenere sempre a portata di giovani curiosi e intelligenti è un fatto assodato. Un capolavoro; un classico; un esempio di narrativa quasi inarrivabile. Se arrivi però a essere uno scrittore di successo, se arrivi a conquistare il plauso di platee immense di critici e lettori, però, il capolavoro di Flaubert potrebbe dimostrarsi una trappola pericolosa. Questa è la prima considerazione che maturo dopo aver chiuso l’ultima pagina di La mia vita di uomo di Philip Roth (che ho letto nell’ultima edizione dei Meridiani Mondadori con la traduzione di Norman Gobetti).

Lo scrittore francese si prende gioco della cattiva letteratura e soprattutto della pericolosa (e masochista) ingenuità dei cattivi lettori. E Roth sa bene che è troppo facile mettersi alle spalle di Flaubert e ridere con lui delle meschinerie dei lettori e dei cattivi scrittori.

Un rischio, dicevo, perché al raffinato epigono del romanziere francese potrebbe sembrare sufficiente un “atteggiamento” ironico nei confronti della realtà romanzesca. Potrebbe risultare  abbastanza il proficuo prendersi gioco di tutto e di tutti, confidando nella propria capacità di usare espedienti retorici e trucchi letterari. Roth invece è consapevole di questo rischio e allora progetta un metaromanzo dove, con un gioco pericoloso e raffinato di specchi, riesce a mettere a nudo tutte le debolezze dello scrittore, della letteratura e, perché no, anche del lettore. Ed è così che il grande romanziere americano prende una cavia, gli dà un nome (Peter Tarnopol), una moglie bisbetica e depressa, una vocazione (la letteratura), un’ambizione (la grande letteratura) e lo getta nel laboratorio delle possibilità.

 

On ne peut jamais se connaître, mais seulement se raconter sentenziava Simone de Beauvoir, e confidando nella saggezza dell’autrice francese (tutt’altro tipo rispetto alla signora Bovary)  Roth rispolvera il suo Nathan Zuckermann e torna a farne un personaggio da romanzo “autobiografico”, da messa a nudo dell’io, da scavo en abîme. Perché si è giustamente convinto che alla prova dei fatti è più facile raccontarsi che conoscersi davvero. E che di tabulazione non è mai morto nessuno. Ma questa volta Nathan è una marionetta nelle mani di Tarnopol. È una sua proiezione romanzesca. È una maschera dietro la quale la voce di Tarnopol cerca di dare corpo alle proprie ossessioni per liberarsene (e liberarcene) definitivamente

I primi due capitoli insomma sono il tentativo di Tarnopol raccontare ciò che non può conoscere: la sua vita. E sfrutta il nome di Zuckermann per abbellire la propria vita.  lì per lì sogghignano di piacere. Ci diciamo: beh questo giochetto metaletterario è piuttosto elementare e abbastanza privo di attrattiva. Ma è solo invidia nei confronti del talento di Roth. Perché bastano poche pagine per capire che il capolavoro è sì nel gioco di scatole cinesi ma non solo. Tarnopol infatti non si libera dei propri fantasmi e nemmeno impara a conoscersi raccontandosi.

Per fortuna è attraverso le debolezze dello Scrittore (con la S maiuscola) che si può riuscire a intravedere la vita. La realtà infatti sfugge allo scrittore se questi usa il suo smisurato Ego per creare la realtà della pagina scritta. Molto pirandellianamente, però, i personaggi “secondari” sono  più autentici e Roth li sfrutta proprio per stigmatizzare le velleità del romanziere. Due di questi personaggi  (il padre e la moglie bisbetica e depressa) riescono infatti a smascherarne limiti e perversioni. Il povero Peter ad esempio fa un matrimonio sbagliato (e lo sa ancor prima di dire sì) ma la “realtà” di questo legame diventa progressivamente un incubo sempre più insostenibile. Anche dopo la separazione lei lo tormenta. È – come ci conferma Peter – fuori di testa ma non solo. Lo tormenta in tutti modi senza nemmeno concedergli il divorzio. E quando per un tentativo di suicidio andato (“purtroppo”) a male, lei è costretta in un letto di ospedale, Tarnopol va in casa di lei e si mette a leggere le pagine del suo diario. E lì scopre – o meglio permette a noi di scoprire –  il gioco raffinato di Roth che sfrutta le “confessioni” dell’aspirante suicida per dirci di più sullo scrittore. “Se non fosse per me – scrive Maureen sul diario – sarebbe ancora lì a nascondersi dietro il suo Flaubert e non saprebbe riconoscere la vita vera nemmeno trovandosela davanti”.

Anche il padre, proprio nelle ultime pagine del libro, finisce per definire – tra le righe – il figlio un perfetto imbecille e visionario. Al padre dà sui nervi  che anche allora, quando ormai è finalmente diventato vedovo, il figlio non accetti consigli di buon senso e buona educazione che lo farebbero stare a proprio agio in un consesso di persone adulte e mature. E soprattutto lo imbestialisce – parole di Tarnopol/Roth –  che abbia “scialacquato l’eredità familiare di industriosità, vigore e pragmatismo”.

Insomma è la ribellione dei personaggi. Canzonano il povero Tarnopol (sacrificabile sull’altare della letteratura psicanalitica al posto di un indenne Roth). E diventa uno zimbello anche nelle mani di personaggi minori, come il tassista che lo riconosce e gli dice di aver portato prima di lui sul taxi James Baldwin, Norman Mailer e nientemeno che Samuel Beckett. Un grado di presa in giro, questo, che rende molto alto il livello della”confessione” di Roth. Tra sogni, velleità e debolezze, l’autore di La mia vita di uomo ci offre tutto il paradigma della vita di uno scrittore che non riesce a diventare uomo e che quindi entra nel novero di coloro nei confronti dei quali Flaubert non nutriva simpatia.

Per salvarsi dalle grinfie del “padre” della Bovary, Roth dà in sacrificio Tarnopol (che a sua volta aveva tentato di sacrificare Zuckermann). Ha rischiato grosso. Ha rischiato che Flaubert e i lettori di oggi (il romanzo è uscito in America nel 1974) non apprezzassero il suo doppio (anzi triplo) gioco. Grazie al suo talento si è salvato. Buon per lui, ma soprattutto per noi.

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