“Più ti avvicini a un individuo, più assomiglia a un quadro impressionista: un coagulo di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quell’individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri.  Bisogna cercare la giusta distanza, in questo tipo di ritratti, che è lo stile dell’unicità”. C’è tutto Emanuele Trevi in questa dichiarazione di poetica. La si ritrova a pagina 18 del suo ultimo libro: Due vite, edito nella Piccola Biblioteca di Neri Pozza. Tutta la sua poetica, dicevo, perché parla di ritratti e perché parla di stile e di unicità. Un canone che è andato costruendo nel corso degli anni a partire dal mirabile Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2012), fino al più recente Sogni e favole (nel 2019 con lo stesso editore). Un canone dove si fa letteratura semplicemente raccontando la propria vita, gli incontri importanti, descrivendo personaggi e persone, indagando a fondo il senso delle letture affrontate. Saggistica, digressioni, pettegolezzi, dialoghi e impressioni che si uniscono in un tutt’uno che fa la felicità di quel lettore che sempre cerca nei libri qualcosa che vale la pena di conoscere e di sapere, che intende fare della lettura insomma un’esperienza autenticamente di vita (anche se mediata dall’autore). E infatti nel libro di ricordi e pensieri dove il critico romano (classe 1964) fa rivivere due figure importanti dell’ultimo quarto di secolo, per chi della letteratura e con la letteratura vive, come Rocco Carbone e Pia Pera, il lettore non soltanto fa la conoscenza di questi autori (prematuramente scomparsi) ma riesce a toccare con mano il loro mondo interiore di cui i libri che hanno lasciato sono delle tracce suffragate dalla testimonianza diretta di chi fu loro compagno di strada e amico sincero. E infatti il libro appare soprattutto come un felice tributo al sentimento dell’amicizia che riesce a legare persone difficili, differenti e ossessionate da personalissime e inconciliabili paure, come Pia, Rocco, e lo stesso Emanuele.

Trevi racconta appunto di un ragazzo calabrese approdato nella Città Eterna per inseguire un sogno di realizzazione. La vita di Carbone è stata spezzata troppo presto da un incidente stradale ma non così presto da non permetterci di leggere alcuni dei romanzi più originali e toccanti degli anni a cavallo del secolo. Tra questi mi è rimasto particolarmente caro Libera i miei nemici (Mondadori, 2005), dove esplora il tema del terrorismo politico e quello dell’universo carcerario. Come ricorda con una felice sintesi Trevi, Carbone arriva  da quel “Meridione dal quale era possibile portarsi dietro nient’altro che il decoro del contegno e una scienza pessimista e disillusa del cuore umano”. Poi ancora Trevi suggerisce i personaggi preferiti dallo stesso scrittore calabrese. Nei suoi primi incontri vedeva in Rocco la personificazione di Ciccio Ingravallo, di gaddiana memoria, un Ingravallo che aspirava a diventare un novello Jay Gatsby, senza dimenticare che quasi tutti i giovani aspiranti scrittori come il Rocco appena sbarcato nella capitale, avevano come modello ispiratore il Martin Eden di London.

Anche quello di Pia è un ritratto “d’artista”. Ne coglie con grazia e sensibilità lo sguardo sulle cose, la delicatezza e la briosità. E soprattutto il suo coraggio. Pia è stata un’apprezzata traduttrice dal russo. Aveva tradotto Pushkin, ma soprattutto aveva fatto i conti – a suo modo – con il Nabokov di Lolita riscrivendo il celebre capolavoro dalla parte della giovane protagonista. Ma da ultimo la sua sfida più ardua e impossibile è stata la battaglia contro il male che l’ha lentamente ma inesorabilmente spenta. Ed è proprio assistendo a questa lotta che Trevi arriva a dire: “Non siamo nati per diventare saggi, ma per resistere, scampare, rubare un po’ di piacere a un mondo che non è stato fatto per noi”. Tutta la forza interiore, tutta l’intelligenza e la sensibilità, tutta la cultura a poco servono. Serve invece la consapevolezza che alla vita dobbiamo rubare più piacere possibile. Ed è questo che vuol dire essere coraggiosi.  Più del precedente Sogni e favole, dove la vita di Cesare Garboli e quella del fotografo americano Arturo Patten sono quasi dei pretesti per discettare di letteratura e di arte, in questo nuovo capitolo del suo “canone” Trevi sceglie un registro ancora più intimo e misura la sua stessa vita su quella delle persone di cui racconta il destino. Fino a regalare al lettore ragionamenti decisivi sull’esistenza. Sfogliando pagine di libri, film e opere d’arte, con studiata noncuranza Trevi fa cadere nelle nostre mani perle di riflessione sulle passioni umane, sul carattere distintivo e sul destino. Come ha scritto un collega (Leonardo Colombati) che conosce molto bene Trevi, Due vite è un “capolavoro di intelligenza e misura, in cui la voce di Emanuele, con la studiata leggerezza di un classico ragiona di temi decisivi dell’esistenza umana”. Senza voler sembrare esagerati potremmo usare le stesse parole che usa Trevi, estasiato dalle sonate di Beethoven eseguite da Martha Argerich: “Ogni volta che siamo colpiti da un’immagine della bellezza e della dignità umana , è sempre all’opera una discriminazione riuscita tra il futile e l’essenziale”. Nel lungo racconto di Trevi non ho trovato niente di futile.

 

 

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