Quando ho preso in mano il romanzo L’educazione di Tara Westover (Feltrinelli, traduzione di Silvia Rota Sperti) ho subito pensato a un titolo estremamente vago per un romanzo. E solitamente quando i titoli sono così anodini il testo non promette niente di affascinante, niente di veramente originale.
A fine lettura però mi sono ricreduto. Nel caso del romanzo autobiografico della giovane Westover il titolo è quanto di più calzante possibile. In effetti questo romanzo di formazione parla proprio dell’educazione che la protagonista riceve. Di come questa stessa educazione le servirà non solo per districarsi nelle avventure del mondo ma anche per dare un senso alla propria individualità. Insomma per fortificare il proprio carattere e renderla libera.
La vicenda raccontata è piuttosto semplice. La piccola Tara vive in una strana fattoria isolata tra le montagne dell’Idaho. La sua è una famiglia numerosa. Ma soprattutto la sua è una famiglia mormone. Con un capofamiglia che ha idee molto particolari sul mondo. A iniziare appunto dall’educazione. Il padre della piccola Tara è convinto che tutto l’apparato pubblico sia gestito da persone che vogliono rubare e soprattutto dominare le coscienze. L’unico modo per essere liberi è quindi quello di vivere una vita autarchica “fuori” dal sistema. E di conseguenza anche la scuola è una trappola da evitare. Ragion per cui questi ragazzi mormoni vivono senza contatti con il mondo dell’istruzione istituzionalizzata. La madre trasmette loro pochi insegnamenti e poche regole di matematica e geografica. Insomma l’educazione della famiglia Westover ha un’impronta altrettanto autarchica del loro regime economico.
Tara non conoscerebbe le gioie della cultura, il piacere della scoperta del mondo reale, se non avesse a che fare con un padre padrone e dei fratelli tiranni. Al punto che la violenza domestica in questa insolita fattoria mormona (dove il principale mezzo di sostentamento non sono le colture ma la rottamazione di vecchie auto e la costruzione di fienili in giro per la regione) finisce per divenire la prima vera spinta all’emancipazione. Una crescita e una conquista di indipendenza che la giovane Tara concretizza con la sua entrata in un college. Riesce da privatista a superare gli esami di ammissione ma, una volta dentro, scopre sulla sua pelle che “l’educazione” che le manca, quel bagaglio approssimativo di nozioni e valori, di informazioni e riflessioni, è la chiave per stare nel mondo. Per condividere lo spazio in mezzo agli altri e per conquistare un ruolo nella società.
Le scene più forti del racconto sono ovviamente quelle legate alla violenza domestica. Alla quale la piccola e indifesa Tara non sembra opporsi proprio perché priva di un bagaglio di valori sul metro del quale giudicare quelle odiose azioni (frutto ovviamente di tare mentali che in qualche modo hanno colpito tutto il ramo maschile della sua famiglia). Eppure la scena che più mi è rimasta impressa e che a suo modo segna la debolezza della giovane protagonista, il suo essere indifesa nel contesto sociale a causa della sua ignoranza, è quella in cui fa la terribile gaffe di chiedere – proprio nel corso della sua prima lezione al college – cos’è l’Olocausto. Il professore, pensando a una provocazione, nemmeno risponde. E tutta la classe volge lo sguardo imbarazzato e infastidito verso la nuova arrivata. Solo compulsando su un computer un motore di ricerca la giovane protagonista scopre l’abisso e l’orrore nascosto da quella parole per lei fino ad allora sconosciuta. Solo allora Tara riesce a relativizzare il Male, a capirne gradazioni e intensità. Solo allora, solo digitando una semplice “parola” su Google, la giovane mormone realizza cosa le è mancato di più fino a quel momento. Non l’amore materno e il rispetto fraterno, ma la possibilità di capire cosa sono l’amore e il rispetto. Nella sua prefazione all’edizione italiana del romanzo (giudicato tra i migliori romanzi americani dell’ultima decade), lo psicanalista Massimo Recalcati in poche parole riassume il senso di questa storia che andrebbe letta a scuola e sarebbe sicuramente un ottimo stimolo per i ragazzi a non mollare i libri per giocare alla PlayStation o per titillarsi con Tik Tok. “Tara Westover – scrive lo psicanalista – dimostra una capacità di introspezione che distingue i grandi scrittori, creando una storia universale di formazione che mira al cuore di ciò che l’educazione ha da offrire: la prospettiva di vedere la propria vita con occhi nuovi e la volontà di cambiarla”.

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