Il family day di Thomas Hardy
Le piazze affollate per Italia svegliati e il CircoMassimo pieno del Family day hanno offerto il meglio del repertorio retorico pieno solo di diktat, capziosità, slogan ideologici. A vincere non è stata la voce della folla, bensì l’ipocrisia. Si parla di famiglia, di amore, di sussidiarietà, di diritti, ma senza sufficiente rispetto per la libertà altrui e queste parole finiscono per perdere peso e svanire nell’aria come bolle di sapone. Se dovessi consigliare un libro da leggere , in un simile contesto politico, direi di prendere Nel bosco di Thomas Hardy appena ripubblicato da Fazi.
È un grande romanzo d’amore. Quindi molti potrebbero storcer il naso. Ma è soprattutto una grande lezione contro i veleni del perbenismo. Ecco perché la sua lettura – proprio oggi – potrebbe tornare utile (oltre che immensamente dilettevole, d’altronde parliamo di uno dei più grandi scrittori inglesi).
Il romanzo, pubblicato in Inghilterra nel 1887 con il titolo “The woodlanders” è considerato il racconto più struggente e più lirico dell’autore di “Via dalla pazza folla”. Ha lasciato il segno soprattutto la contrapposizione di due mondi: quello dei boscaioli (i woodlanders del titolo, appunto) e quello dell’aristocrazia. Due mondi che si trovano a condividere lo stesso contesto: il villaggio di Hintock nella valle di Blackmore. Luogo di fantasia quant’altri mai, ma paradigmatico, almeno per gli scopi di Hardy. Lo scrittore aveva bisogno di una contrada dove il lavoro dipendesse in larga misura dall’elemento naturale. In questo caso il bosco. Tutti ricavano proprio da questa risorsa i beni di sostentamento. Con la differenza, sostanziale, però che i ricchi borghesi e gli aristocratici sono già inclini alle speculazioni più aggressive, mentre i boscaioli e i contadini che si nutrono direttamente dei frutti del bosco ne difendono la vita e i suoi ritmi naturali. Campione di questa categoria è Gilles Winterborne. Boscaiolo sensibile e appassionato ma timido fino al masochismo. Uno dei vertici di un triangolo amoroso che vede in Grace Melbury (figlia di un commerciante di legname) e in Edgard Fitzpiers (dottore, nonché aristocratico decaduto), gli altri attori principali. È questo triangolo che offre il destro a Hardy di una pungente satira delle convenzioni amorose e sentimentali, sotto le apparenti vesti di un romanzo d’amore. Gilles ama Grace, ma il padre ambizioso di questa la convince a cadere tra le braccia del calcolatore Edgard. Uomo che, via via che passano le pagine, muta le sue sembianze da intellettuale romantico a cinico profittatore. In questo, come in molti altri romanzi d’amore scritti da mani maschili, il lieto fine non esiste. Semmai un finale accomodante e comunque illuminante sulle reali dinamiche tra i due sessi. Hardy è un impareggiabile maestro nel ribaltare non solo i luoghi comuni ma anche le etichette che siamo inclini per troppa fretta ad affibbiare ai personaggi che incontriamo nelle pagine dei romanzi (ma ovviamente vale anche per quanto siamo soliti fare nella vita reale). Lo stesso Fitzpiers muta di segno e di registro tante volte nel corso del racconto. E se al termine della storia si redime, quella redenzione non cancella la macchia dell’ipocrisia che è all’origine dei suoi convincimenti e delle sue azioni.
I tanti ribaltamenti, le numerose combinazioni di possibili (e impossibili) coppie, ci avvertono che una cosa è certa: in amore niente etichette. Tutto è imprevedibile. E che non si possono sbandierare dogmi e proclami solo per rispettare idee, etichette e ambizioni.
Alla fine avrei chiuso il libro, tradotto magistralmente da Stefano Tummolini, con la sensazione di aver assistito a un raffinato esercizio sul consolidato tema della commedia umana. Poi, però, il finale ha ribaltato il mio pregiudizio. Senza svelare niente ai potenziali lettori di “Nel bosco” posso solo dire che Hardy una sua idea sull’amore ce l’ha e va cercata non in ambienti dove si è sempre pronti a mettere in mostra il proprio agire, bensì là dove si agisce nell’ombra, dove si ha rispetto della costanza e della fedeltà verso la propria natura, dove ci si muove per affetto e non per calcolo. Dove non si sbandierano i sentimenti ma lì si vivono nei gesti, anche i più umili ma soprattutto in quelli meno scontati.