La “voce” di Carver è davvero onnipotente
La trama, in un romanzo o in un racconto, conta niente se non c’è una valida voce a raccontarla. In fondo l’unica vera onnipotenza dello scrittore risiede nella sua voce. Considerazione che ricavo durante una delle ultime lezioni del corso di scrittura creativa che sto frequentando. A fine lezione ci viene assegnato il consueto compito a casa. In questo caso si tratta di “rintracciare in un romanzo o racconto un passaggio (non più lungo di mezza cartella) in cui ritieni che l’autore non abbia aderito al diktat: Nulla di scritto che non possa essere detto, qualcosa che, nella lettura ad alta voce, per un motivo o per l’altro, non suona. Quindi riscriverlo fino ad adattarlo a una lettura ad alta voce che suoni bene”. Una volta a casa sono entrato nel panico. La mia memoria (letteraria) era una tabula rasa, forse anche perché mantengo quasi sempre la tipica disposizione del lettore ingenuo, quella sospensione dell’incredulità che rende l’universo narrativo vivo, immaginifico ma credibile a un tempo.
Avvicinatomi alla mia libreria ho lanciato uno sguardo d’insieme ai dorsi dei volumi. Cercando ispirazione. Poi mi sono fermato su Raymond Carver. L’esile volume color arancione non riporta nemmeno tutto il titolo, bensì solo l’incipit “Di cosa parliamo…” Mi ricordo vagamente il contenuto. Mi ricordo i dialoghi (tanti) e le storie (anemiche) che contiene. Non ho mai avuto tanta passione per la narrativa americana “minimalista”; tantomeno mi ha convinto il cosiddetto padre di questa poetica, quel Raymond Carver che ha saputo sedurre anche un regista profondo e sensibile come Robert Altman. Proprio questo ricordo: alcuni racconti presenti in Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (Minimum Fax) sono stati poi adattati al grande schermo da Altman in America oggi.
Proverò a rileggerlo, mi sono detto, per cercare i dialoghi che non funzionano. Senza convinzione, per la verità, visto il mio (pre)giudizio fondato su un vago ricordo di lettura precedente.
Di questo libro (come degli altri di Carver) è stato detto che è una pietra miliare nella letteratura americana perché cambia la prospettiva e lo scenario. La vita di tutti i giorni, il grigiore e il torpore alienato dei suburbs entrano prepotentemente nella fiction letteraria. I dettagli sono pochi, le connotazioni pure. I personaggi sono tutt’altro che memorabili. E i dialoghi, appunto, come recita il compito a casa del mio corso di scrittura, puntano alla verosimiglianza coi dialoghi che tutti i giorni ci scambiamo nella vita reale. Insomma ce n’è abbastanza per tenermi lontano da tutto ciò. Eppure, a rilettura appena conclusa, mi rendo conto che non posso proprio prendere uno di questi dialoghi e riscriverlo. Tutto è perfetto. Tutto ciò che sembra vago e indeterminato è come lo spazio che si gonfia intorno alle esili sculture di Alberto Giacometti. Quei dialoghi semplici e diretti, quelle esili connotazioni costruiscono un universo non solo credibile ma assolutamente poetico. Una esile struttura che si evidenzia proprio per il contrasto con il mondo che lo circonda. Diciamo che, proprio come Giacometti, Carver lavora per sottrazione, lasciando sulla carta soltanto il necessario. Anzi sottrae ancora di più, consentendo al lettore di godere le evocazioni e le allusioni, i silenzi, quasi, di questa “voce” davvero efficace e potente, pur se a un primo ascolto sembra il borbottio basso di un ubriaco.
Non porterò a termine il mio “compito a casa”, però ho abbattuto un pregiudizio e riscoperto un grande scrittore.