Il dazio è l’ultima idea stravagante di Donald Trump. E noi qui si resta come sospesi tra l’incredulità e un divertito sussiego. Come se fossimo già dimentichi di tutto quello che ritenuto dal nostro buonsenso e dalla nostra sagacia impossibile si è trasformato, nel caso del nuovo presidente degli Stati Uniti, solida realtà. Fin da quando ha ventilato la sua candidatura (quasi due anni fa), abbiamo sorriso. E non abbiamo smesso di farlo nemmeno quando ha vinto le primarie repubblicane. Lo stupore e (per alcuni) l’amarezza ha preso il posto di quel ghigno snob soltanto ad elezioni avvenute. Quando ormai era di tutta evidenza che gli americani avevano scelto lui come quarantasettesimo inquilino della Casa Bianca.

Il punto, ovviamente, non è che non conosciamo abbastanza lui, Donald Trump. Il fatto è che – giustamente – il popolo e la mentalità americana sono lontani da noi e che tra l’american way of life e la nostra mentalità molto “vecchia Europa” c’è di mezzo un oceano. Ecco perché voglio approfittare del mio blog per proporvi un libro che sicuramente ci offre un personaggio esemplare della mentalità dell’elettore di Trump. Sto parlando di George F. Babbitt. Vale a dire il protagonista dell’omonimo romanzo di Sinclair Lewis. Pubblicato pochi anni prima della Grande Crisi del ’29 e – soprattutto – in piena Proibizionismo, il romanzo di Lewis è tra i più vividi affreschi dell’America del ventesimo secolo. E al di là dell’Atlantico resta uno di quelle pietre miliari imprescindibile per chi vuole farsi una cultura letteraria. Da noi invece, il romanzo non ha avuto una grande diffusione. La sua ultima edizione risale a quasi un quarto di secolo fa. Era il 1993 quando Corbaccio mandava in libreria la (splendida) traduzione di Barbara Buoniventi. Non sarebbe male se proprio ora, che dimostriamo tanta fatica nel confrontarci con il mondo statunitense, questo libro tornasse sugli scaffali delle librerie.

Racconta la storia di Babbitt un intraprendente immobiliarista, orgoglioso di essere uno dei residenti più illustri di Zenith. Una cittadina ideale più che reale. Un nome non scelto a caso da Lewis. Come lo zenith che a perpendicolo si erge sopra la testa dell’osservatore, così Zenith è il centro modello e a un tempo summa delle ambizioni dell’americano medio. E chi meglio di un immobiliarista può delineare la città dei sogni per l’americano medio. Intanto è una città operosa, con tutte le industrie manifatturiere, capannoni, artigiani, ma anche chiese e circoli del golf e una campagna verde e compiacente nelle prossimità di un centro abitato che non sarà mai, però, grande e dispersivo come New York o Chicago.

Babbitt nasce campione repubblicano e conservatore. Per non dire della sua vaga indole razzista. Quando parla di immigrazione, a esempio, sembra quasi di sentir parlare lo stesso Trump: “Grazie a Dio hanno messo dei limiti all’immigrazione… Quando avremo assimilato gli stranieri che ci sono già e gli avremo insegnato i principi dell’Americanismo e ne avremo fatto delle persone come si deve, allora magari ne faremo entrare un altro po’”. Fa tutto quello che serve per essere un “campione” della moralità borghese. È iscritto alle logge più in vista, gioca a golf, ha una moglie e tre figli e una grande casa con giardino nel dignitoso sobborgo di Floral Heights.

Eppure non è felice. Anche lui cova la sua giusta dose di angoscia esistenziale. Cui ovviamente non riesce a dare un nome. Le ristrettezze del proibizionismo e la angusta mentalità provinciale, poi, non lo aiutano di certo ad emanciparsi dai suoi turbamenti. Proverà anche il brivido del tradimento, e di una scapestrata quanto momentanea boheme. Però tornerà alla fine all’ovile. Come pecorella smarrita che ritrova le carezze del pastore accetta anche di “arruolarsi” nella Lega Civica. E il peccatore redento è certo ancor più degno di brandire la spada del perbenismo.

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