Aleppo come Dresda, ce lo dice Remarque
Aleppo come Dresda. La martoriata città siriana ha ormai preso il posto nel nostro immaginario della capitale della Sassonia. Eppure noi restiamo qui, nei nostri salotti a guardare senza capire le immagini rare e frammentarie che arrivano dai punti più affollati e martoriati della Siria. D’altronde non è facile capire l’orrore e la tragedia che laggiù stanno sfibrando le ultime resistenze dell’umanità sfruttando tutti gli agi e le comodità della nostra vita quotidiana. Ecco perché sarebbe importante mettere nelle mani dei nostri figli alcuni libri che possano raccontare un orrore simile con la profondità e lucidità che solo la letteratura sa offrire. Perché, banalmente, se la penna è buona l’immedesimazione è maggiore. Ed è un capolavoro del Novecento che voglio proporre allo scopo. Lo ha appena ripubblicato Neri Pozza che si sta dedicando a rieditare tutti i romanzi di Erich Maria Remarque. Conosciuto soprattutto come l’autore di un capolavoro ormai divenuto classico: Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929), dove affronta i suoi fantasmi di volontario al fronte nella Prima guerra mondiale, Remarque non ha mai interrotto il suo dialogo con la scrittura. Anche durante il nazismo, e durante il secondo conflitto mondiale che, lo ha visto soltanto spettatore defilato (aveva ottenuto prima rifugio in Svizzera e poi definitivamente si era trasferito negli Stati Uniti). Ed è proprio nell’esilio americano che Remarque scrive Tempo di vivere, tempo di morire. Romanzo che torna nella celebre traduzione Ervino Pocar.
A suo tempo il romanzo (pubblicato nel 1954) fu oggetto anche di una celeberrima riduzione cinematografica. Celeberrima perché come pochi film ha saputo raccontare una struggente storia d’amore nata sotto le bombe tra una profuga e un soldato in licenza. E questo mentre non solo crollava il Terzo Reich, con la progressiva ritirata delle sue armate dal fronte russo, ma anche mentre si cancellavano le residue tracce di umanità nelle città tedesche bersaglio dei bombardamenti degli alleati.
Ernst Graeber torna in licenza dopo due anni ininterrotti al fronte. Non prima di aver visto tanti compagni morire e aver introiettato un fatalismo cinico e duro, unica corazza per non venire schiacciato dagli eventi. Quando tornerà in patria scoprirà che il fronte non è poi tanto più pericoloso che vivere in città. Ed è proprio il suo primo sguardo sulla città devastata dai bombardamenti anglo-americani a rappresentare un utile strumento di empatia per capire gli orrori che ancora oggi popolano i nostri notiziari (a iniziare proprio da quanto avviene in Siria). Poi sarà uno sfollato a spiegare a un incredulo Graeber che cosa sta accadendo con un lapidario commento finale: “Non si capisce mai quello che succede finché non si tratta della propria pelle. E quando lo si capisce è troppo tardi”. Quando gli sfollati, le vittime delle incursioni aeree devono trasformare la propria vita, rinunciando a ogni tipo di certezza anche alle più radicate ed elementari, allora e solo allora si entra nello spirito di quanto è accaduto. Un altro personaggio, l’anziano professore cacciato dalla scuola per le sue posizioni anti-naziste, confessa egli stesso che in un simile degrado umano non si può pensare che a se stessi e che il cinismo non è altro che una maschera dell’egoismo necessario per la sopravvivenza. E non bisogna essere anagraficamente in là con gli anni per provare gli stessi sentimenti. Anche la sua amata Elisabeth, bella e radiosa, diventa un’altra persona dopo i bombardamenti. “Adesso siamo vecchi – gli confessa – senza l’esperienza della vecchiaia. Vecchi, cinici, senza fede”. Tanto che alla fine, quando le giornate, ma anche soltanto le ore, passano senza necessità impellenti, senza angosce immediate o brucianti dolori, si arriva a provare qualcosa che ricorda molto da vicino la felicità. E un commosso testimone arriva al punto di constatare: “Quando non si hanno esigenze tutto è un dono”.
Per dare, insomma, l’idea di cosa sia un bombardamento e, soprattutto, cosa sia stata e cosa sarà sempre una guerra, Remarque regala pagine davvero indimenticabili ed efficaci in questo come in altri suoi romanzi. In più, lo scrittore tedesco strappa il velo dell’ipocrita incoscienza (o ignoranza) che si suppone abbia obnubilato milioni di suoi concittadini negli ultimi anni del regime e nei primi anni del conflitto mondiale. Ed è proprio la progressiva presa di coscienza del soldato Graeber a fungere da tema portante del romanzo.
I giovani di oggi possono ritrovare in queste pagine anche l’orrore cieco e incomprensibile, che oggi sembra monopolio e quasi invenzione del terrorismo religioso. Anche allora ricorda Remarque, nelle città bombardate la polizia segreta e le SS non smettevano di fare “pulizia” e arrivavano addirittura a esecuzioni pubbliche non con armi automatiche ma con le scure. Sì. Eseguivano le stesse decapitazioni che oggi sembrano una delle cifre del terrore islamico.
Anche il professore dissidente non ha risposte. La sua cultura non può aiutare il soldato Graeber a spiegare l’improvvisa scomparsa di ogni pur labile traccia di umanità. E di fronte al peggiore di tutti gli orrori, vale a i campi di concentramento, l’unica risposta possibile è un dubbio. La scena è tra le più commoventi del libro. Il soldato si ferma a guardare la biblioteca del professor Pohlmann. Questi lo invita a servirsene liberamente. Ma Graeber rifiuta: “Vorrei sapere però come si accordino questi libri, queste poesie, questa filosofia coi campi di concentramento”. “Non c’è alcun accordo – replica Pohlmann – sono soltanto cose che coesistono nel tempo. Se quelli che hanno scritto questi libri fossero vivi oggi sarebbero nei campi di concentramento”.