Che cos’è il Recovery Fund? E davvero qualche Paese, come l’Italia, rischia di perderci? Gli interrogativi, in seguito all’approvazione dell’accordo da parte del Consiglio Europeo della scorsa settimana, sotto la presidenza del belga Charles Michel, sono ancora moltissimi. In realtà bisogna cominciare con il dire che l’accordo raggiunto riguardava due punti differenti: da un lato il consueto bilancio pluriennale dell’Unione Europea dal 2021 al 2027, che sarà pari a 1074 miliardi di euro, finanziato attraverso i contributi netti degli Stati membri, dall’altro il piano “Next Generation EU”, un’integrazione straordinaria del bilancio comunitario del valore complessivo di 750 miliardi, che è poi l’accordo noto come “Recovery Fund. Quest’ultimo, voluto per contrastare le conseguenze socio-economiche della pandemia da Coronavirus, sarà finanziato, per la prima volta nella storia della costruzione comunitaria, con una condivisione del debito: questo dovrà essere ripagato dall’UE entro il 2058. Con la condivisione, la Commissione diventerà di fatto l’attore principale della politica finanziaria dell’Unione.

Se, dal punto di vista dell’integrazione politica, il Recovery Fund è sicuramente un passo avanti, va detto che, rispetto all’iniziale proposta del presidente di turno, Michel, che prevedeva un “Next Generation EU” composto da 500 miliardi di sussidi (quindi che gli stati membri non devono restitutire) e 250 di prestiti, su pressione dei cosiddetti “Paesi frugali”, si è, nella versione finale, arrivati a 390 miliardi di sussidi e 360 di prestiti. Un enorme passo indietro se si considera inoltre l’iniziale proposta italiana, che prevedeva un Recovery Fund da 1500 miliardi composto in prevalenza da erogazioni a fondo perduto.

Per quanto riguarda i sussidi approvati, questi arrivano in massima parte dal fondo denominato Recovery and Resilience Facility (RRF), per una cifra pari a 312,5 miliardi e per 77,5 miliardi da fondi destinati a piani di sviluppo specifici (sostenibilità, green economy, digitalizzazione). I prestiti, invece, saranno tutti erogati attraverso il fondo RRF. L’accordo sui fondi, prima di essere considerato definitivo, deve ancora essere approvato in sede di Parlamento europeo e, successivamente, ratificato dai vari parlamenti nazionali dei Paesi membri.

IL LUNGO ITER DI APPROVAZIONE DEI PIANI NAZIONALI “DI RIPRESA E RESILIENZA”

Questi, per accedere ai fondi, che saranno erogati a partire dal 2021, dovranno presentare un “Piano nazionale di ripresa e resilienza” di durata triennale (2021-2023). I piani presentati dai singoli stati dovranno essere sottoposti alla Commissione che li valuterà entro due mesi dalla presentazione, in base soprattutto a due criteri. Il primo, e qui iniziano le note più dolenti, è la cossiddetta “condizionalità”, vale a dire la coerenza con le Raccomandazioni specifiche per paese (CSR, Country Specific Recommendations) emesse dalla Commissione, che attualmente si rifanno ancora a quelle del 2019, prevedendo la riduzione della spesa pubblica primaria in termini nominale (cioè maggiore austerità…) e riduzione del peso delle pensioni sulla spesa pubblica. Il secondo criterio sarà l’efficacia nel contribuire alla transizione verde e digitale.

Una volta approvati dalla Commissione, i piani nazionali dovranno essere approvati, entro quattro settimane, anche dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata. Durante l’iter i piani saranno inoltre sottoposti a una valutazione da parte del Comitato economico e finanziario. In questa sede, se anche un solo Paese avrà dei dubbi sul rispetto degli obiettivi da parte di un’altro Stato membro, potrà chiedere che questi vengano sottoposti al Consiglio europeo, bloccando di fatto l’erogazione fino a un periodo massimo di tre mesi. Una misura, questa del “freno di emergenza”, chiesta dai Paesi frugali capitanati dall’Olanda, così come lo sconto sul loro contributo al bilancio comunitario (rebate), che dovrà essere saldato dagli altri, tra cui l’Italia.

Posto che ancora non si sa a quale tasso di interesse i fondi saranno raccolti sui mercati finanziari, quest’ultima, considerando solo la sua parte dei sussidi (e non dei prestiti) del Recovery Fund, dovrebbe ricevere ogni anno un contributo netto in termini di trasferimenti di 4,2 miliardi di euro. A questi, secondo una proiezione di Silvia Merler, analista del fondo di investimenti Algebris, andrebbero sottrati i 3,8 miliardi di euro che l’Italia versa in media annualmente come contributo netto al bilancio UE e 1,5 miliardi di contributo allo sconto per i “frugali”. Ebbene, secondo questa proiezione, l’Italia, senza considerare la quota prestiti del Recovery Fund, sarebbe così comunque “in passivo” di 1,1 miliardi l’anno.

Bisogna ammettere che, affidandosi a questi dati, la prospettiva, almeno per il bel Paese, non sembrerebbe molto esaltante, al contrario di Spagna e Polonia, gli altri due maggiori beneficiari del Recovery Fund, che godrebbero invece di una sovvenzione netta di 8,1 e 12,9 miliardi rispettivamente…

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