Se amare l’Italia è una ‘provocazione’
Marcello Veneziani è un provocatore. Sì, basta. È ora di dirlo. È un provocatore perché si permette di scrivere agli italiani quanto ami l’Italia e non solo, è andato oltre. Si permette, addirittura, di girare il Paese per manifestarlo, sì, lui in persona, pubblicamente e per davvero. Marcello Veneziani è un provocatore di nostalgia, quel rimedio attivo e salvifico all’indurimento della propria coscienza nazionale, allo spegnimento dell’identità intima e di popolo tra i balzelli retorici di Messere LoRenzi il piccolo, nel cui regno, amare l’Italia è roba per vecchiastri intristiti. Marcello Veneziani è un attentatore. Attento a difendere l’amor patrio, attenta alle coronarie dell’annichilimento.
Leggete. Leggete cosa si ‘permette’ di scrivere negli iperconnessi duemila: “L’identità non è un fattore inerte, fossilizzato, ma si accompagna a un processo che chiamiamo tradizione: ove si trasmettono e si selezionano nel corso del tempo, di generazione in generazione, conoscenze, patrimoni, esperienze di vita. L’identità è radice, la tradizione è la sua linfa”
Ora, vai a spiegare agli italiani che si parlerò di loro, in casa loro. Sono così poco avvezzi, ultimamente, a sentirsi chiamati in causa come nazione, come entità per qualcosa che non sia una vittoria sportiva o una tenzone internazionale che penseranno sicuramente sia una trappola. Una trappola a teatro. Una di quelle cazziate favolosamente minacciose alla Girolamo Savonarola oppure un melenso De profundis da recitarsi tutti insieme, mano per mano, amarezza dopo amarezza. Banalità sopra banalità. Vai a spiegare, invece, che tra le poltroncine ed il palco non c’è confine intellettuale ma esiste la narrazione della realtà. Prova a fargli capire che quello di cui si tratterà, ciò che andrà in scena non è tanto (e solo) un lavoro da presentare, non è esercizio di stile; non è uno spettacolo, né una pantomima moralista.
Ma un comizio d’amore. Una guida pratica ed efficace per ristabilire un punto di contatto con l’italianità finita nelle segrete del pensiero unico, dell’Essere unico.
Prova a far capire che ancor prima di tutto, l’Italia non ama più se stessa, si vede imbruttita allo specchio dei suoi giorni, bella come una dea, trascurata come una mignotta dalla mediocrità degli animatori politici, stuprata dal politicamente corretto. Vai a fargli capire che non sarà campagna elettorale, che prima del Chianti da esportare in Massachussets c’è Dante da riscoprire e Machiavelli da ripensare, che prima della Costituzione c’era qualcosa, che prima della Resistenza c’era l’esistenza certificata di una nazione nata precedentemente alla sua unità politica, la cui lingua ed il cui nome riecheggia nelle valli d’Europa ancora prima di essere un regno, durato poco poco, o una Repubblica delle banane. Che cento anni fa da nazione unita ha attaccato, ha difeso ed ha vinto, nel primo grande evento di patria, quello che ha fatto incontrare sul Carso il contadino calabrese con quello di Varese.
Vai a fargli capire le parole di Vincenzo Cuoco, con danzante realismo: “gli italiani sono nati dagli dei e dalle bagasce”, prova a fargli capire che nessuno deve offendersi ma provare nostalgia. Ecco, provare nostalgia forse è la cura, sveglia il ricordo, riporta all’origine. A quella dimensione intima ed accogliente di ognuno, che non ti impedisce di viverlo il presente, a quel legame con la terra, con la famiglia, a quel momento in cui si è scoperta l’Italia. Vi ricordate com’era e quando fu? Se era una festa o un funerale, se era una catastrofe o una vittoria sportiva. Se era una sagra, una piazza, se era musica o profumo, di ragù, magari, che bolliva dalle sette di mattina. Prova a fargli capire il bianco e nero e prova che la bellezza di questa Italia, non durerà per sempre se non curata.
Prova a dirlo ad alta voce:
Fratelli d’Italia / L’Italia che resta/Dell’euro di scippo/s’è rotta la testa/Dov’è la sua storia?/Le porga le scuse/Che schiava di Troika/Lo spread la creò/Stringiamoci a coorte/Migranti alle porte/L’Italia scoppiò/Sfracelli d’Italia/L’Italia non resta/se pensa alla chioma/e perde la testa.
Così, secondo Veneziani. Il ‘provocatore’.
Adesso spiegaglielo agli italiani che si è persa l’abitudine all’italianità, tra le mire dell’Europa, della tecnica, tra la corruzione e lo sfracellamento addosso al muro della tecnologia, tra progresso e progressismo, tra banalità e deformità d’animo. Tra paraculi e paraculezze che, però, ci sono sempre state. Diglielo che l’italianità non potrà mai essere una sottocultura.
Una di queste sere, da qualche parte in Toscana o in Umbria, in Lombardia o in Puglia, c’è una “Serata italiana”. Una di queste sere ci sarà un “Comizio d’amore” in città. E ti accorgerai subito che non sarà come visitare un museo, che non sarà una rimpatriata, un sermone infinito di destra o di sinistra. Che non si sfoglierà l’album dei luoghi comuni.
E allora te ne accorgi subito dal volto di chi è uscito dalla sala, con la moglie affianco, che quello che è andato in scena non è stato uno spettacolo, una tristissima gazzarra, un pezzo d’opera scolorita e scaduta ma un atto di purificazione. Un abluzione coscienziale tra musica ed immagini in video, tra un monologo ed una lettura di una lettera. Una “Lettera agli Italiani”
Siamo ancora italiani, nonostante tutto.