La democrazia va calzata come un vestito, un vestito buono, non come uno scomodo e occasionale accessorio. Così anche le responsabilità di popolo, le stesse che hanno ragione innanzi agli occhi della storia.

E l’Italia non gode mai, frigida com’è. Maledizione, non raggiunge mai il quorum, di questi tempi.

13.334.764 Sì, 2 milioni e 198mila No. Quorum non raggiunto. Referendum andato, 300 milioni (e passa) spesi. Non si votata per rinnovare il Parlamento, non si votava per fare contenta quell’essere mitologico che è la minoranza PD; non si votava neanche per silurare Renzi. Si veniva chiamati ad esprimersi, in tempi in cui non si fa altro che ciarlare di diritti, di democrazia diretta, di responsabilità civile, di maturità di popolo, di ingiustizia politica. Il popolo, altra bestia mitologica, nella variante di popolicchio e popolone, veniva semplicemente interpellato.

In un mood marcio e decadente in cui più la propaganda governativa ha invitato a starsene a casa, nella speranza di un fallimento referendario – “Spero che questo referendum che potrebbe bloccare 11mila posti di lavoro, fallisca”, parola del Premier -, ad andare al mare, a fare la partita di calcetto scapoli-ammogliati che non si riusciva proprio ad organizzare da quattro mesi, iniziativa gravissima, specie se proveniente da chi per le urne non c’è mai passato, da chi fa di nome Italicum e di cognome Nazareno, da chi fa dirette social per accogliere gli italiani, da chi incarna un sentore moderno di socialdemocrazia, la mia gente veniva chiamata ad esprimersi pubblicamente, a staccarsi dieci minuti dalle scale mobili del centro commerciale o dal bancone del bar dello sport. Il gingerino e le cosce della barista Giovannella, dopo il voto. E invece no, chissenefrega. Tanto: il referendum non è importante, non si vota neanche per il Parlamento, figurarsi…, il mio voto non cambia nulla, non ho capito il quesito, Renzi ha detto di non farlo che poi 11mila persone perdono il posto di lavoro, tanto: ancora votate?, ma cosa vi interessa tanto sono tutti ladribauscia, ci vorrebbe il Duce, addavenì Baffone, così me ne fotto e vado a fa la braciolata a Santa Marinella. Tanto il referendum non passa, non si vota in tutte le regioni, voterà poca gente e poi votando positivo fai una cortesia alla minoranza PD.

Poteva vincere il Sì o il No, l’importante era esserci. Doveva vincere la pubblica dignità, senza screzi per nessuno, senza fare rivoluzioni, senza metafisica e fantasticherie varie. Per dare un segnale di sanità, anche un filo di incazzatura, nazionale. Dal Sì e il No, dalla battaglia di massa, dalla gente che si esprimeva direttamente, dall’opinione che si plasmava e trovava uno sbocco utile e reale, ad oggi, alla necessità di raggiungere il quorum a malapena, agli appelli governativi a fottersene, a targhe alterne però, della libera interpretazione democratica e dei suoi mezzi.

Altro che coscienza popolare, la stessa vista negli anni, nella lunga storia delle circa 70 consultazioni referendarie, tra abrogative, istituzionali, consultive e costituzionali. S’è spenta la passione che infiammava il dibattito, contribuendo realmente agli incastri della cosa pubblica nazionale che ancora aveva, seppur senza generalizzare, un’anima, una parvenza d’onesta intellettuale e uno straccio di indirizzo, di via, di visione, di offerta e di senso di alternanza, dalla metà degli anni ’90 in poi. Dal divorzio nel ’74, all’aborto, dal finanziamento pubblico dei partiti e la legge elettorale dei Comuni, fino ad una miriade di quesiti, fino al ’97, consultazione da cui la frigidezza avrebbe regnato sovrana – eccetto la parentesi del giugno 2011 -. Da lì, quasi sempre, addio quorum. Giusto o sbagliato, Sì o No, l’Italia c’era.

Segnali, sintomi.

C’era una volta il referendum trionfante, che metteva paura a chi lo subiva. Il referendum era una grande arma. Poi si è rimpicciolita e restano le immagini dei politici promotori con le casse di firme da sottoporre alla mannaia della Cassazione. E la battaglia sul sì e sul no si è trasformata nella battaglia sul quorum”, ricorda Battista sul Corsera. Come dargli torto.

Ci meritiamo una Repubblica virtuale. La prossima tornata elettorale facciamola direttamente sui social. Apriamo i seggi su Facebook, si vota con un like; solo così, forse, si avrà una minima possibilità di incidere nel reale.

Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò. Quando chiama troviamo scuse: troppa politica, poca politica, troppa sinistra, poca sinistra, troppa saggezza, poca saggezza, troppo caldo, poco freddo, troppi chilometri, pochi metri, troppe risposte, pochi quesiti, troppi quesiti, poche certezze, poco lavoro, troppa angoscia, poca angoscia, troppa ideologia, troppo menefreghismo, poca alternanza, troppo bella la giornata per non andare al mare, troppa demagogia.

Demagogia, senti da che pulpito. “Refendum trivelle dimostra che la demagogia non paga”, “Con quella cifra avremmo potuto acquistare 350 nuove carrozze per il trasporto pendolare”. Ecco il Presidente del Consiglio e il suo significato di demagogia, tratto da una storia vera e recente.

Ad aver perso non è Renzi (che comunque “stringe”, conto più, conto meno, con i 13 milioni netti di votanti, in condizioni menomate in cui non ha votato tutto il Paese, con fortissimo menefreghismo annesso, giustappunto; uno smacco al suo orgoglio che potrebbe ritorcerglisi contro in ambito “politiche”) ma il popolo italiano, in quanto tale, ancora una volta. Oltre tutto.

Riprendiamoci un senso, di corsa.

“Sfracelli d’Italia, l’Italia non resta se pensa alla chioma e perde la testa”, citando un atto d’amore di Marcello Veneziani.

Ma vaffanquorum…anche alla strafottenza e a quel “Ciaone”

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