25 aprile: basta con l’idea di elevare a Nazione una festa di partito
L’idea di elevare a Nazione una festa di partito.
L’Italia è figlia di pochi pregi e tanti errori, è impossibile chiamare democrazia ciò che scrivono solo i vincitori.
Fiano e Boldrini: ecco la nuova Resistenza?
Nella parolina magica, antifascismo, ormai, c’è un mondo. Un po’ come dire oggi democristiano. Antifascismo è un credo, una mezzo e una missione. Un accessorio vintage, una scusa per tutto e un’offerta promozionale: passa ad antifascismo ed avrai elevazione sociale, culturale, 4 gb al mese, 400 sms e 400 minuti di chiamate. Del fascista – sempre da intendersi come prolungamento naturale di antifascismo, quindi con assoluto disprezzo – oggi ci si da tutti, random. Un modo gretto ed assolutamente superficiale per indicare il male, momentaneo e di qualsiasi forma. Per decentrosocializzare e rendere alla portata di tutti un evento che con il presente non ha più nulla a che fare. Chi sono i nuovo paladini della Resistenza, in una società perennemente a base di antifascismo? I centri sociali, Emanuele Fiano, l’uomo che vuole rendere illegale l’anellino con la croce celtica e maledire a vita il suo portatore o Laura Boldrini, la distruttrice di obelischi, l’apriporte alla Camera dei nonnetti con il fazzolettino al collo e la gita pagata – quelli che almeno mezzo mitra in mano l’hanno tenuto? –
Società liquida.
In una società liquida in cui il polo d’attrazione è il centro e tutto il resto è anacronismo, l’ideologia è anacronismo e rinnegamento, in cui va configurandosi l’antipolitica populista, canonicamente intesa, nello schieramento del poveraccio popolano costretto sempre alla sofferenza contro il politico di professione, chi è il vero Resistente, qual è la vera Resistenza? Allora stanca da morire la brutalità e l’ipocrisia con cui la retorica militante impone di leggere ancora oggi, nel 2016 disastrato da crisi umane ed economiche continue, nel 2016 della decadenza occidentale, disumanizzante, in cui la Tecnica oltrepassa qualsiasi flusso di coscienza e lobotomizza le masse, il “benedetto” valore della Resistenza. Forse utile a tenere aperti i circoli di quella creatura mitologica definita Associazione Nazionale Partigiani d’Italia? Forse per acchiappare audience in momenti di estrema difficoltà.
La storia negata.
I crimini fascisti, tutti segnati nel grande libro. Negata la storia. Allora pare che questa disgraziata Italia parta per il lungo viaggio verso la sua maturità solo da dopo la Resistenza. Né il Rinascimento, né il Risorgimento, né il fascismo, ovviamente, né la Grande Guerra, troppo patriottica per essere il riferimento di slancio dell’italica modernità, per essere la protagonista dell’Italia che cresce. Incuranti di alcuni dettagli che giammai potrebbero essere insegnati nelle scuole di ogni ordine e grado.
Dal concetto di guerra civile, che mise fratelli contro altri fratelli, che mai si può definire tale, da intendersi invece come Resistenza, come mito della Resistenza, come necessità di Resistenza, come gesta della Resistenza e non come tale, protrattasi anche dopo la cessazione del secondo conflitto. Dal Pci armato che subito dopo la guerra tentava di imporsi, fucili alla mano, per eliminare gli avversari della futura democrazia subito – “Nemici da uccidere sono anche i partigiani bianchi, i militari anticomunisti che hanno combattuto insieme agli Alleati, gli antifascisti liberali, i possidenti, i sacerdoti, i politici moderati, i socialisti riformisti”, quindi non solo fascisti in fuga nelle campagne, scrive Giampaolo Pansa nel suo “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli, 2010) –, approfittando del conflitto ancora caldo, alle parole di Pietro Secchia – una della teste più importanti della Resistenza italiana -, scritte negli anni ‘70, capaci di far intuire un certo scopo: “Particolarmente importante, come indice del nostro orientamento, mi sembra il fatto che già nel settembre 1943 noi sottolineassimo che il nostro obiettivo era la lotta per una democrazia popolare. In seguito si parlerà di democrazia progressiva. Ma sin dall’inizio il nostro obiettivo era chiaro ed esplicito: noi comunisti non ci battevamo per ritornare alla democrazia prefascista” o a quelle del generale Raffaele Cadorna, inviate nel 1945 all’allora Ministro della Guerra, Alessandro Casati: “Il PCI, che conduce il gioco, non nasconde affatto che il suo scopo è di prendere il potere. Per instaurare un regime russo che chiama popolare progressivo. I suoi capi nell’Italia del Nord sono stati addestrati in Unione Sovietica. E sono passati attraverso la trafila delle Brigate internazionali in Spagna e del comunismo in Francia. Dichiarano apertamente di volersi appoggiare all’Urss e a Tito. E recalcitrano al pensiero di doversi sottomettere agli ordini degli alleati occidentali”. Degli omicidi metaconflitto, degli stupri di ragazzine, umiliate e poi uccise – come nel caso di Giuseppina Ghersi –, del “triangolo della morte”, finanche delle crocifissioni – Il ‘triangolo della morte’, una specifica zona del Nord Italia in cui trovarono la fine numerose persone per mano partigiana, di cui non tutte furono legate direttamente al fascismo. Dall’uccisione di Rolando Rivi, poi Beato della Chiesa Cattolica, giovane seminarista di 14 anni, ai sette fratelli Govoni, di cui soltanto due aderirono de facto alla Rsi, facenti parte del secondo ‘Eccidio di Argelato’, compiuto nel maggio del 1945; in entrambi gli accadimenti, persero la vita più di 30 persone. La strage della ‘cartiera Burgo’ a Mignagola, in cui vennero rinvenuti nei pressi della stessa cartiera più di 80 cadaveri occultati da componenti delle brigate ‘Garibaldi’. Oltre ai civili massacrati, vi era Luigi Lorenzi, sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana. Testimoni oculari affermarono che, ancora vivo, fu inchiodato ad una specie di croce formata da due legni e che poco prima di morire disse: “La croce che Gesù Cristo ha portato non può far paura a un cristiano” -, di queste azioni condotte da frange della Resistenza, da componenti della Resistenza e delle varie Brigate appartenenti alla grande famiglia del CLN o del CLNAI, poi riconosciuti con onore unici eroi, unici degni figli dalla futura Repubblica Italiana, non si può e non si deve parlare. Disturberebbe quantomeno la retorica della Resistenza che, invece, deve secondo qualcuno perpetuarsi nei secoli a venire. Tutta fantascienza di cattivo gusto.
Solo alcuni esempi. Tranquilli, un parto della fantasia.
I risvolti e l’augurio
“Il 25 aprile non è mai stata una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse, che rappresentano legittimamente una parte degli italiani, ma solo una parte, non sono l’Italia. È una festa nata contro “gli italiani del giorno prima”, ovvero non considerava che gli italiani fino ad allora non erano stati certo antifascisti. Non è un festa di tutti gli italiani, perché non rende onore al nemico, anzi nega dignità e memoria a tutti costoro, anche a chi ha dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta. Oggi c’è una rinnovata enfasi corale per un evento che più si allontana nel tempo, più è lontano dalla sensibilità della gente e più viene imposto mediaticamente. Per cui mi sono convinto che sia necessario ridiscutere il valore di questa festa così come viene concepita”, scrive Marcello Veneziani. Impossibile la riappacificazione nazionale, unico gesto utile a rendere memoria a chi ha ceduto la vita combattendo per un’idea, verso cui dignitosamente va riconosciuta memoria, questo sì. Unico gesto utile a garantire una reale coscienza nazionale, un reale impulso democratico.
Per evitare di celebrare la “festa” di una guerra civile – come l’hanno definita Giorgio Pisanò e Claudio Pavone –, per tendere davvero a valori nazionali condivisi.