Un anno di lockdown, un anno di insopportabile umiliazione. Ora basta! La vita non è un crimine
Un anno come una botta in testa. Confusione, smarrimento. Vi vengono richiesti solo cinque minuti del vostro tempo agli arresti domiciliari.
Un anno fa, abbiamo imparato a misurare il peso della libertà in un tempo che si crede libero perché può permettersi pressoché qualsiasi cosa: che fiacca minchiata. Libertà è partecipazione. Come, di grazia, stiamo partecipando a quanto accade, a quanto ci sradica da ogni diritto? Qual è la partecipazione in un anno di editti del faraone, Dpcm, di decisioni politiche che, ormai, esulano da un sostegno scientifico, piste da sci chiuse in mezz’ora, senza preavviso? Qual è la partecipazione in Dpcm che, fino a l’altro ieri, venivano emanati senza consultare il Parlamento, luogo ridotto a nonluogo, da tempio a scempio della democrazia? Abbiamo mai constatato se la nostra sofferenza, se qualche nostro grido di allarme, di paura, di sfinimento costituzionale sia mai realmente preso in considerazione da chi ci governa per orientare il giorno? Questa è partecipazione? Questa è libertà, forse? Chi crede lo sia, vive la sua percezione dovuta alla realizzazione nell’egoismo individualista. Banalmente, vivere murati in casa con l’abbonamento di Sky rinnovato NON è libertà. E sì, ognuno di noi, da un anno o da una vita, per un virus o per altro, conosce il sacrificio. Non è vizio, né capriccio.
Un anno fa, abbiamo imparato a concepire che la vita non solo può essere un’eccezione ma che può persino trasformarsi persino in un crimine. La vita.
Un anno fa, abbiamo imparato il senso della colpa e della vergogna, nudi di fronte alla nuova divinità, nel nuovo peccato originale della religione dell’umanità, come direbbe Jean Louis Harouel, che deve redimersi solamente da sé stessa e dai propri peccati, senza più alcuna mediazione divina. Culto sostitutivo che dichiarava l’avvento del Dio Vaccino e della Scienza Vergine – diffusa dagli apostoli del Cts e dai virologi suoi profeti -, sempre intonsa e maestra di vita, dea delle coscienze, ispiratrice unica degli atti degli uomini. C’ha trovato nudi e colpevoli, intenti a credere in un Dio, a chiedere la Pasqua, a fare frizione con un pensiero critico, a possedere una volontà e uno spirito, a rompere i coglioni con la voglia di vivere. Nulla di più sbagliato: la scienza ti salva, pupazzo. Stai zitto e lasciati salvare, sempre. Non la scienza dei chirurghi, benevola, ma l’Altissima scienza che diventa politica e governa la polis, la plasma, ne indirizza le abitudini, il credo privato, i sentimenti; non la giusta prevenzione, ma la soffocante precauzione, il principio di precauzione, dalla culla, alla tomba. La Scienza che ci ha rivelato quali finestrini aprire in auto per non contagiarci, come fare l’amore, come masturbarci, come mangiare, cosa, quando e con chi al pranzo di Natale. La priorità del corpo sullo spirito e sui suoi prodotti. Il corpo è sacro, lo spirito, ora, è un ammennicolo inutile.
Un anno fa, abbiamo ricordato a noi stessi il valore dei nostri medici e del nostro talento.
Un anno fa, abbiamo imparato cosa significa fare a cazzotti col proprio daimonion: acquisizione di un senso di responsabilità che giunge in quel tempo in cui basta frignare diritti e correre sotto il manto progressista della Madonna della Pietà per essere protetti e rassicurati; abbiamo scoperto la sismicità antropologica, uomini vibranti nell’incertezza costante, incapaci di essere sovrani di sé stessi; abbiamo fatto macerare la paura così tanto da trasformarla in angoscia, che corre all’infinito, e ora siamo pronti a essere perfettamente grigliati nella fragilità. Ansia, depressione, panico, giovani generazioni accoltellate mentre correvano. Emergenza psicologica, oltreché economica, costantemente ignorata. E poi ci lamentiamo se il loro canto è la Trap, graffiato e graffiante, gronda sangue rabbioso di isolamento in un sogno di potenza che non si realizza, come una richiesta indiretta di aiuto. TRAPpola.
Un anno fa, il rapporto Stato-cittadini è mutato: dalla fiducia, alla paura. Stato liberamente illiberale. Lo Stato è stato.
Un anno fa, abbiamo misurato esattamente il peso della mediocrazia, ovvero del governo dei mediocri – che giunge nuovo per la postdemocrazia -, in una interminabile favola che parla di un Conte e di Draghi, di giullari e buffoni di corte. Dagli scranni moriremo scannati. Scannati senza un soldo, scannati senza più sangue.
Un anno fa, abbiamo imparato quanto la più grande battaglia del nostro tempo non sia più ideologica, ma antropologica: la grande battaglia, per chi vorrà concepirla e combatterla, contro l’autoannullamento degli uomini, della loro integrità. Abbiamo imparato a conoscere gli aborti umani, i mai nati come uomini, figuriamoci come politici.
Un anno fa, o meglio, nel corso di un anno orribile, abbiamo sentito un ex commissario all’eterna emergenza pandemica affermare che con il vaccino sarebbe terminata la pandemia. Ad oggi, i vaccini spopolano, ma non in Italia, dove tentenna ancora un piano vaccinale degno di essere chiamato tale.
Un anno fa, avremmo dovuto attrezzarci, capendolo subito, per una reazione a ciò che accade un anno dopo (METTETE VOI IL PENSIERO).
Un anno fa, abbiamo lucidamente compreso che non esistiamo come nazione, men che meno come popolo, ma che ne manifestiamo gli stereotipi – credendo possa bastare per essere tale -, i baffineripizamandolino dai balconi festanti. Abbiamo acquistato di gran furia il tricolore al negozietto cinese sotto casa a un euro e venti, per incarnare l’atto dimostrativo di un canto dalla loggia, abituati a non essere grati, evocando Ortega Y Gasset, a chi l’ha costruita la Civiltà – e lì c’è un popolo -, che però ci godiamo pienamente. Cento anni fa, potevamo pure dire ai ragazzi del ‘99 di tornare al paese in Calabria a fare l’amore con le fidanzate, a questo punto. Anche loro cantavano e avevano un tricolore. “Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora”, ci dirà Armando Diaz. Un popolo per dirsi tale ha bisogno di un rito che ne rigenera l’essenza nel tempo, specie nell’epoca della negazione degli Stati come nazione. Quel rito, quasi sempre, ricorre nel dramma e nell’oppressione, nel tempo di guerra. Nel tempo di pace non esistono popoli, ma solo persone indaffarate o felici; nel tempo di guerra, ogni virtù nazionale, se esiste, viene richiamata ad esistere e a confermarsi. Momenti fondativi della Patria vanno rigenerati per riconoscersi ancora come tale. Da cittadini a coinquilini. Nessun destino che taglia il tempo pare più unire questa gente, non vi è più interesse, quindi, in una communitas, che richiama il dovere, il debito, il dare, ma in un individualismo di sopravvivenza, che ci rende spietati, delatori, colpevolizzatori: faremmo qualsiasi cosa per garantire le nostre necessità di sopravvivenza. Aprite i porti ma sparate al mio vicino. Losco presente agambeniano di una massa fatta di unità abitative distanti ma unite nei nonluoghi della protesta inconcludente, dei social network, nella illusione della partecipazione e del potere globale. Sottolineatura orwelliana: piuttosto che finire ancora nella Stanza 101, prendete i miei tre figli, ammazzatemeli davanti. Farei, io, ego, qualsiasi cosa pur di non tornare la dentro.
Un anno fa, abbiamo visto la materializzazione della nuova forma umana, gli uomini folla. Uomini folla che occupano solo spazio e si spostano l’uno sull’altro, come brulicare di vermi in busta, per riempire i vuoti creati dall’ingegneria politica, come zone pasturate in cui fare gran cattura di consenso. Vuoti e pieni, vuoti pieni solo del loro vuoto, come le dichiarazioni dei virologi, l’eterno lockdown ricciardiano, l’eterno terrore galliano, crisanteniano. Uomini folla che vivono di gratificazione istantanea, nella dittatura dell’immagine-verità, nella negazione del processo complesso e profondo che genera la ricerca della verità, tutto si materializza come vero quando si vede, e poco importa cosa c’è dietro. Ciò che si vede è l’esistente, e basta. Dittatura dell’immagine, quella sì, che passa per gli occhi per fottere le anime. Uomini folla replicanti, sterilizzati, incapaci di reagire, che si accontentano della vita puntillistica – memorie di Bauman -, in cui ogni giorno è in un punto, in un punto stretto che genera nuove voglie, necessità, stimoli, paure, emozioni, dall’alba al tramonto, identità portatili, volatili, virologiche, politiche, terroristiche. Dall’alba al tramonto. Uomini folla che non riescono a nutrire dubbi, a mettere in discussione, neanche di fronte a contraddizioni o stronzate così spesse che chiunque ci sbatterebbe la testa: “mai col Pd, mai con Forza Italia al governo. Mai quello con cui sto governando”, suona il cielo rimasto con sole Cinque Stelle; “avremo 150mila persone in terapie intensiva se vi permettete di vivere”. 150Mila.
Un anno fa, abbiamo imparato a capire che siamo noi a disturbare il virus e non viceversa.
Un anno fa, abbiamo imparato a comprendere che nessuno si salva da solo. Che si salverà da questo infinito pandemico, solo chi rimarrà lucido. Abbiamo imparato, forse, quanto un pensiero critico, la generazione di dubbi, il ragionamento sopra le cose, che distinguono il reale dal surreale, il luogo dal nonluogo, la libertà dalla schiavitù, la dignità dall’indegno vivere come runner nazisti colpevoli di ogni cosa, siano fondamentali per campare. Ossigeno. Non basta l’assenso. Non basta indossare una salvifica mascherina.
Un anno fa, abbiamo imparato a capire che, un anno dopo, siamo al punto di partenza: zone rosse, aria di lockdown, infinito pandemico che si materializza nelle due parole sante: varianti e ondate. Ondate di varianti, varianti di ondante, terza, quarta, quinta. Parcheggiati nel coprifuoco – della cui utilità ancora qualcuno dovrà spiegarci qualcosa – per l’incapacità della politica di farci vaccinare in fretta e in gran numero. Non si può chiedere alla psicologia sfinita, devastata degli italiani di resistere ancora, ancora e ancora, chiedere ulteriori e dannosi sacrifici, quando i vaccini non arrivano.
Un anno fa, ci hanno fatto caricare sulle spalle l’intero peso del dramma, intero. E ce lo hanno anche fatto pesare, più del previsto. Runner, movida, giovani, voglia di vivere una vita appena decente che loro ci concedono per poi punirci dello sfruttamento della concessione concessa, mentre in molti si sono iniziati a chiedere: lo Stato ha condiviso con noi questo peso? Ha potenziato i protocolli per le cure da casa, ha sostenuto il meccanismo dei medici di base, ha seriamente rafforzato il sistema sanitario con nuovi macchinari, operatori e strutture? Ha creato un efficiente piano vaccinale, veloce, organizzato, efficace? Ma soprattutto, su tutto, lo ha fatto nei tempi giusti – penso all’estate del 2020, mentre Di Maio consumava rapporti vaginali nell’acqua di mare -?
Un anno fa, abbiamo imparato a capire che una partita Iva, per questo Stato, un lavoratore autonomo, un negoziante, un imprenditore privato, e tante altre figure di questo nostro variegato teatro, vale quanto il fango sotto le scarpe.
Un anno fa, abbiamo imparato che cinema, teatri, palestre, musei, sono l’inferno, luoghi di inutile frequentazione, disastro e perdizione, vero? Giusto?
Un anno fa, e sempre più in questo anno maledetto, abbiamo imparato la sfiducia verso l’altro, la distruzione della coesione sociale, la normalizzazione dell’istituzione e la realizzazione del sogno bagnato sessantottino, la distruzione dei modelli di autorità, diventati pop, gossip e voyeurismo, selfismo militante, quella life politics che si abbassa verso le emozioni e gli istinti popolari per mangiare consenso, ogni giorni di più; abbiamo imparato che, questo, è un mondo già morto, che ha terrore di bambini e ragazzi, oggi, pare, sempre più appestati portatori del contagio.
Un anno fa, abbiamo imparato a capire che va rifondata, anzitutto, una classe di uomini, non solo di politici. In un anno non abbiamo ancora imparato a capire che come per tutte le altre generazioni ora tocca alla nostra portare il peso della propria porzione di responsabilità sulle spalle, se vogliamo essere degni della storia e non di un racconto di fugace imbarazzo. Responsabilità che significa certamente prevenzione, tutela della salute propria e altrui ma che di fronte, ad esempio, al terrorismo virologico e mediatico, si incarna anche in una reazione che non sia accettazione aprioristica della nuova normalità, felici in mascherina, danzando con la morte, nella tana del coniglio dalle 22.00, ai soprusi, al modo di essere trattati, alle decisioni esclusive della politica, talvolta ingiustificate o scellerate.
Un anno fa, abbiamo imparato cosa significa essere trattati da figli stupidi.
Un anno fa, nel corso di un intero anno ad oggi, abbiamo imparato molte cose. Ma un anno dopo esatto mi chiedo, cosa abbiamo imparato davvero? Come siamo cresciuti? Cosa potevamo fare? Cosa possiamo fare? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione a questa umiliante degradazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione?
L’assurdo, l’irrazionale, i banchi a rotelle. Primule rosse.
Un grido di dolore. Se volete, ancora, ingozzarvi di dati da rivomitare nella illusione che serva a qualcosa, andate a leggere altrove. Non di soli dati muore la nostra dignità. Cretino io che ancora credo sia possibile smuovere la benché minima riflessione scrivendo, coinvolgendo in un dramma che non è privato, né isolato.
Ci nutrono a spazzatura, come i gabbiani. Non c’è neanche più il buon gusto dell’asservimento.
Manifesto di un anno di vita criminale.