Dantedì? Se Dante potesse ci picchierebbe, altroché. Per lui la libertà era sacra, per noi il lockdown è infinito
Lui uscì a riveder le stelle, liberandosi dal male, noi, a malapena, possiamo uscire per fare la spesa.
Celebrare Dante in galera, leggerne i suoi versi, musealizzarne l’essenza disinnescandola in maratone di lettura online. Feticismo fariseo. Pareva brutto non fare niente nel giorno dei settecento anni della sua nascita, ovvio. Anche oggi, ci siamo puliti la coscienza. L’equilibrio è ristabilito.
Possiamo evocare il nome dei padri, possiamo disturbare il sonno glorioso dei giusti, possiamo leggerne i versi, persino masturbarci sopra le loro pagine, ma ormai il bluff è svelato: nel profondo nostro, profondo rosso, non sentiamo più accendersi il motivo del nostro esistere e reagire, combattere ed ambire, strettamente legato ai loro insegnamenti, se non per dimostrazione di stile. Quasi sempre, ormai per la totalità, così va. L’eredità si è rotta, la trasmissione interrotta. Riempiamoci pure la bocca, ma domani saremo gli stronzi di sempre.
Ogni nostro sforzo quotidiano dovrebbe essere volto alla ricerca della giustizia, in questi mesi. Sì dovrebbe respirare tensione, non solo generata dalla continua privazione ma dalla necessità di liberarci dal male che buca lo stomaco. Tripartire la nostra volontà quotidiana: famiglia, lavoro e ricerca della giustizia. Ognuno dovrebbe cavalcare il disagio. Eppure sembriamo atomi che non si legano e, per questo, non producono effetti. Passivi, sodomizzati, strillanti su un social network: eccoli i “botoli ringhiosi”, nel Dantedì, che siamo diventati, chiusi nell’infinito pandemico, a gridare nel Purgatorio che osa punire anche solo l’idea di Bene con le fruste dei virologi che lasciano segni sulla schiena: non permetterti di vivere, di sperare, la curva non cala, i contagi esplodono, i morti aumentano, serve un nuovo lockdown, serve altra prigione. E noi qui, oggi, a celebrare Dante che della libertà fece ambizione assoluta?
Ma forse non ci rendiamo pienamente conto. Io mi chiedo: cos’altro debbano fare, dal governo, per non meritarsi una vera e propria sommossa popolare? Forse, dare della mignotta a nostra madre? Come si riesce a intavolare, in ogni disgraziato giorno italiano, un dibattito su questo e quello, quando ad Anagni vengono scoperte magicamente oltre venti milioni di dosi di vaccino, in un Paese che lagna assenza di vaccini e che, proprio per questo, è ancora agli arresti domiciliari ad aspettare che il caldo sciamano, santo e magico, venga a salvarci tutti, o meglio, quelli che, di questo passo, saranno rimasti poiché fuori pericolo rispetto al fallimento economico o psicologico? Ma come si fa? Con quale coscienza? Con quale visione di uomo, di cittadino e di Stato?
Questi cavoli della Boldrini e della figlia di Fedez; questi grandissimi cavoli della corsa scudetto e delle uscite di Michele Serra; questi ingombranti cavoli di Enrico Letta e del nuovo suicidio del Pd. Questi rampanti cavoli di ogni cosa mobile o immobile, compreso il Dantedì, tanto siamo sempre meno degni di ricordare un padre nobile. Quel padre ci disconoscerebbe: “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (Pg I 71). La vita rifiuta per lei. E noialtri, poveri farisei virtuali, me in primis, non stiamo rifiutando la vita per giungere alla libertà, non compiamo il sacrificio della ribellione – eppure c’è chi ancora va definendosi tale in un giubilo mistico di infantilismo e tenerezza -, ma abbiamo accettato, supinamente, la riduzione della vita stessa a un’eccezione. Dante, nei suoi passi, mostra una continua tensione alla redenzione, alla libertà come fondamento dell’integrità degli uomini, in continuo equilibrio tra libero arbitrio e sfera morale: “dalle prime opere fino alla Commedia, dove continuamente presente è la tensione dell’anima verso la purificazione degli affetti, sostenuta dalla ragione e illuminata dalla grazia”, ci ricorda Bruno Bernabei nell’Enciclopedia Dantesca, “Libertade è tra i vocaboli centrali del mondo dantesco, pervaso dall’ideale della libertà”. Il rovesciamento dalla servitù. Quella dantesca appare non come una libertà “di” (che oggi pretendiamo come se ciò che facciamo determina la nostra esistenza, specie in rapporto agli altri), ma una libertà “da”. E qui risuona più forte di tutte le letture online della Divina commedia online del cacchio di questa giornata, l’ammonimento di Alighieri esiliato ai concittadini, che possiamo oggi leggere non solo con accezione al Divino, ma anche come evocazione più alta di cosa sarebbe giusto fare per non essere più considerati cittadini de iure e sudditi de facto: “Non vi accorgete…che è la cupidigia che vi domina,…che vi tiene costretti con minacce fallaci e vi imprigiona nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle santissime leggi […] l’osservanza delle quali…non solo è dimostrato che non è servitù, ma anzi, a chi guardi con perspicacia, appare chiaro che è la stessa suprema libertà”. Libertà dantesca, nobile affrancamento che dovrebbe essere anzitutto dalle macerie di noi stessi e dalle nostre aspettative: attendiamo, e i giorni della pandemia ne sono testimonianza, che la libertà ci venga data, ci venga offerta, peggio ancora, ci venga concessa.
Dunque eccoci qui a celebrare il cimitero, la Cultura come rito forzato, atto dimostrativo, il ricordo come ricorso. Eccoci, oggi, a spolverare le bomboniere nella cristalliera, ricordando i tempi che furono. Nel frattempo ci ricordo che, quasi sicuramente, le restrizioni dureranno anche dopo Pasqua, fino al 13 o al 18 aprile, nonostante le dichiarazioni del ministro Franco e dello stesso Draghi “sull’ultimo sforzo” e su “da dopo Pasqua ricomincia gradualmente una parvenza di normalità”. E chi gli impedisce di non proseguire con le zone rosse fino a metà maggio?
Ancora una volta: i padri sono sempre più giovani di noi, anche se hanno settecento anni. Mentre lo ricordiamo e mentre lui ricorda chi siamo e come siamo fatti, chiediamo scusa a Dante della nostra inconsistenza. E questo Regno cretino, se voleva dare vita a qualcosa di concreto, poteva almeno regalare una copia della Divina a ogni studente. Una casa, una Divina commedia, che è lettura degli uomini, del tempo, di Dio. Ben più di un’interrogazione.
“Color che ragionando andaro al fondo, s’accorser d’esta innata libertate; però moralità lasciaro al mondo “. Quale moralità può lasciare un mondo umano in rovina che si limita a farsi sterilizzare, a replicare, a godere dell’immagine-verità, a prostituirsi verso chiunque politicamente possa garantire le proprie necessità di sopravvivenza, che campa di mera gratificazione istantanea, che rinuncia al proprio pensiero critico per cucire in fretta e senza approfondire, il reale e i suoi accadimenti, morendo nel nozionismo, nelle porzioni di dichiarazioni dei media, del web, dei leader che dà vita a una percezione di conoscenza?
Anche oggi ci siamo puliti la coscienza. Anche oggi abbiamo constatato, in gran parte, l’inutilità degli intellettuali in questo mondo, l’inutilità degli intellettuali che si esprime nell’impossibilità di tradurre e declinare, di contaminare la sfera morale, e non solo pompare le possibilità infinite del libero arbitrio, e la volontà degli stessi di apparire, di monetizzare, di farsi riconoscere. Vuoti simulacri. Nello sforzo dell’anima per uscire dal peccato, nel riportare il mondo ad un salvifico antropocentrismo.
È Massimo Dapporto, nei suoi ragionamenti sulla libertà dantesca, a ricordarcelo: “Ancora la dialettica fra libertà e schiavitù; tra un giudizio non compromesso dalla passione e il condizionamento dell’appetito. Perché la libertà in Dante è “de la volontà la libertate”, come dirà in Paradiso o, nelle parole ancora della Monarchia, “principio primo della nostra libertà si è la libertà dell’arbitrio”. Anche qui, l’io della modernità non può che sentirsi lontano, forse dolorosamente lontano, dalle certezze dantesche. L’io spodestato del soggetto moderno, non più padrone a casa sua; l’io invaso dall’inconscio, o disturbato dal progresso delle neuroscienze, che non sanno dove collocare l’organo della libertà nella contemporanea topografia del cervello, rischiano di rendere il concetto di libertà dantesca remoto, supremamente inattuale. Dante vive in un regime intellettuale e morale di orgogliosa alterità antropocentrica; in cui la diversità radicale della ragione apparenta l’uomo al divino e alla sua trascendenza”, così come fu per il genio dell’imperfezione, Leonardo, e così come fu per quell’uomo rinascimentale, che mise in asse Natura, Bellezza e Assoluto, che noialtri, poveri topi da laboratorio, andiamo cercando ma che sempre meno riusciamo a capire.