Un crollo dei consumi pari a 128 miliardi di Euro.
300mila imprese del commercio a rischio chiusura.
945mila posti di lavoro persi in un anno.

Ciò che è accaduto ieri a Roma, in piazza Montecitorio, è fin troppo poco rispetto a ciò che sarebbe potuto succedere. È difficile smorzare gli effetti di una tensione ossessiva che avrebbe dovuto essere prevenuta nel tempo e non lasciata esplodere.

Delatori contro runner, stipendio fisso contro privati, divano contro piazza, anziani contro giovani, lavoratori contro altri lavoratori (manifestanti contro la Polizia). La nuova guerra (in)civile striscia nel fallimento della classe di uomini politici. Che spettacolo meraviglioso, applausi!

Chi ha permesso ciò, pur avendo avuto il tempo di evitarlo, è colui che sta accompagnando la bara della democrazia al proprio funerale, per farsi farlocco profeta del prossimo futuro politico: la mediocrazia, il governo dei mediocri. Leggiamo tutti insieme, in prigionia, Alain Deneault, che per primo ne ha teorizzato l’esistenza presente. Si fa ancora più forte il mio grido personale: la battaglia più grande, in questo nostro tempo, è quella contro l’autoannullamento degli uomini, contro la fine della loro intelligenza, delle loro dimensioni di profondità, della loro integrità, della loro coltivazione e della loro capacità di ragionare sopra le cose, criticamente.

Ieri ero lì, a Roma, a sentir lievitare la frustrazione dovuta al senso di impotenza. Crediamo di essere utili, noialtri praticanti dei pensieri e delle parole, ma non lo siamo. Già è tanto se riusciamo a provocare qualche riflessione.

Dal Palazzo fosse sceso qualcuno (eccetto il deputato Federico Mollicone, che si è presentato tra i manifestanti). Si fosse affacciato anche solo per capire che forma ha la povertà. Loro che pensavano di averla abolita.
Vomito!
Dovreste avere il coraggio di guardarli negli occhi i manifestanti di ieri, mentre cantavano l’inno d’Italia, mentre strillavano “Libertà! Libertà!”. Ristoratori, gestori di palestre, di centri estetici, di discoteche, grossisti, produttori, partite Iva, baristi, privati, donne e uomini, madri e padri – non militanti di professione – che si sono fatti centinaia di chilometri per arrivare a Roma a tirare in faccia al Governo la rabbia, l’angoscia, la disperazione di chi non ha più un soldo in tasca, non ha più risparmi, e viene trattato come il figlio stupido che non deve far alzare la curva, a costo di schiantarcisi addosso, ma che può campare di insufficiente elemosina e per questo, ingrato, dovrebbe tumularsi nella propria immobile angoscia. Cittadini e governo divisi da un obelisco e da un cordone di polizia, così vicini e mai così lontani (basti vedere le pretese infantili del Pd di dare il voto ai sedicenni, mentre i loro padri perdono il posto di lavoro). Non può essere la paura e l’imposizione a generare il rapporto civile e democratico tra un governo e la sua gente.

Pare che noi disturbiamo il virus, non viceversa. La vita, così come il lavoro, non sono un’eccezione.

A ogni strillo di quella gente, una coltellata, profonda, secca. Eppure quella gabbia di improvvisati aborti umani, i mai nati come uomini, figuriamoci come politici, non ha il coraggio nemmeno di guardarli negli occhi, mentre piangevano. Piangevano per davvero, anche se, come dimostra la scelta della maggior parte dei media, per la dittatura dell’immagine-verità, l’uomo con le corna, quello con la mascherina abbassata o quell’altro che sposta la transenna per andare sotto al Parlamento, sono ben più fotogenici e degni di rappresentare la mattinata rabbiosa di ieri.
L’Italia mi fa male.
Mi scarnifica.
Mi rende scemo più di quanto non lo sia già.
Mi fa impazzire.

Berlino brucia mentre noi disegniamo estremisti sul muro della rivolta dei miti, come la chiama Daniele Capezzone. Gli eventuali atti idioti degli ultras della devastazione non possono coprire la reale disperazione e sono, comunque, passati per la legge, come è giusto che sia.
Ma cosa deve fare un semplice cittadino disperato per farsi ascoltare? Per avere giustizia? Ma cosa vi aspettate? Se si impicca al trave del salone alle 3.30 di notte è stato uno sciocco, perché la vita non si spreca; se scende in piazza, strillando, piangendo a cinquantacinque anni come un ragazzino di venti, facendosi mezza Italia in auto, è un pericoloso scemo di destra, xenofobo, catcaller, no mask, negazionista, nazista, analfabeta non funzionante, provocatore, suprematista bianco privilegiato; se apre la propria attività per protesta, è un pazzo immaturo. Certo, chi oggi critica i lavoratori (leggasi LA VO RA TO RI) mette fiori nei cannoni, gli stessi che si è fumato con tanta veemenza da aver dimenticato che, l’altro ieri, operai, autonomi, privati, ultimi, quei lavoratori, erano al centro dei loro pensieri. Sminuire, ridicolizzare, la manifestazione romana di ieri, depotenziare la forza del disperazione privata, tangibile, a livello mediatico e politico, significa sminuire, ridicolizzare e depotenziare la Costituzione stessa. Ridurre la fame, l’angoscia, la rabbia di chi non può lavorare a capriccio, è un atto vergognoso.

Che l’Italia sia una bagnarola in decomposizione umana, anzitutto, e, poi, politica ed economica, lo sapevamo. Poiché la più consistente rivoluzione attuabile, in questa fogna a cielo aperto, è quella che riguarda gli uomini, anzitutto. È quella che, all’alba del mantra odierno del “discolparsi da tutto per l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità”, dovrà rigenerare una classe di uomini, ancora prima che di politici.

Ma i furbi e i fessi prezzoliniani, governanti e governati, quei cittadini de iure e sudditi de facto, pare non vogliano smettere di scavare il fondo con un cucchiaino. Prima di giungere al magma ribollente, non si potrebbe prendere in considerazione alcune idee? Quella, per esempio, di una riapertura a tappe (mese dopo mese, a partire dai negozi in aprile, magari a maggio con i teatri e i musei e da giugno col resto delle attività, coerentemente con l’aumento delle temperature e delle vaccinazioni di massa e tenendo sempre conto, ovviamente, delle regole di prevenzione), di creare accordi a tappeto tra il trasporto pubblico e quello privato, turistico, affinché si possano raddoppiare i mezzi e le corse, evitando assembramenti selvaggi là dove il Covid prospera (32 casi di positività riscontrati su autobus, treni e vagoni metro dei trasporti di molte città italiane, a seguito di una campagna di controllo dei Nas sui mezzi pubblici in tutta Italia, con oltre 763 tamponi effettuati). O ancora, la possibilità di favorire vaccinazioni in ambito aziendale, di riaprire gradualmente, e con protocolli ferrei, le attività all’aperto (dove è stato testimoniato che avviene un solo contagio su mille. Dai  dehors dei ristoranti, ai parchi archeologici, come quello di Sutri e Selinunte, come sottolinea Vittorio Sgarbi, che conciliano arte, cultura e necessità di profonda serenità).

Non si può proprio prendere in considerazione tutto ciò? Evidentemente dobbiamo rimanere parcheggiati nell’inferno della devastazione psicologica ed economica fintanto che il balletto (geo)politico dei vaccini non ci permetterà di considerare la vita un affare essenziale e non il contorno del consenso elettorale.

La rivolta dei miti è appena cominciata e stavolta non sarà né ideologica, né dimostrativa.

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