La classica operazione da compagni: da un lato, la santificazione che porta sulle spalle il peso dell’immagine immediata, sporca e subito, dall’altra, la continuità della specie ideale, chiamando a raccolta qualsiasi compagno nel raggio di cento metri dai quartieri più ricchi delle città: non importa il nome del candidato, del segretario, del partito, del simbolo, occorre votare, sostenere, diffondere le qualità del prescelto o della prescelta. Ne sa qualcosa proprio Ilaria Salis in quel di Milano.
Un’operazione legittima dal punto di vista della spietatezza politica – di cui la sinistra italiana è maestra indiscussa – ma infantile e imbarazzante da quello morale. Del resto, è la stessa sinistra che, in anni e anni di politicamente corretto da ingoiare a forza, tenta di plasmare quella società che non si orienta più su una morale edificante il Bene, grazie a precisi precetti e identità, ma decade verso la moralizzazione del giusto collettivo. Per giocare con le parole, la morale è cambiata, o meglio, si è decomposta in favore della moralizzazione della società. Un nuovo aggregato fatto di tante individualità urlanti e pretenziose, fragili e disorientate, che sono affiancate in una folla sciolta nel peggior conformismo, che le unisce come fugaci manifestazioni; un blocco che non attinge a valori o ideali per condurre il cavallo della storia, ma punta alla dimensione antropologica, fin nelle profondità degli uomini e delle loro dimensioni di profondità. Una società che non è più, da tempo, comunità, ma aggregato indistinto in cui il Giusto prende il posto del Bene, in cui la sfera privata invade quella pubblica. Un luogo in cui conviene essere decenti, dalla parte dei giusti, per esistere, se si vuole far parte della maggioranza, del corpo sociale e non incarnare il demonio dell’indecenza che è la forma di respirazione indipendente in questa cappa – come l’ha definita Marcello Veneziani – di ipocriti e silenti allineati.

In ogni caso, ancor più macchiettistico di queste poco allegre trovate commerciali è chi paragona Vannacci alla Salis. E qui si spalanca un bivio: a destra si va nel mare estivo dell’incontinenza emotiva, a sinistra, verso la montagna insuperabile del ridicolo.
Paragonare una frequentatrice di centri sociali e detenuta a un uomo che ha servito lo Stato, nei massimi ranghi, è quantomeno idiozia. Perché creare un parallelo? Per la loro natura di “outsider” prestati alla politica, o meglio, scippati da due spompate compagini, come la Lega e il duo antico come i divani della zia ricoperti dalla plastica, Fratoianni e Bonelli, al fine di sostenere i loro magri bottini e impedire la trasformazione delle urne elettorali in urne cinerarie.
Dall’altra parte del bivio sulla provinciale, del resto l’Italia è tutta una provincia, specie nella mente, la salita al cielo europeo di Vannacci e Salis testimonia ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, che il merito è andato allegramente a farsi pestare da uno gnu sordo e che il voto, sociologicamente e troppo spesso, è orientato sullo stato di agitazione emotivo permanente, su quella life politics – in cui il voyeurismo, il giudizio estetico, il farsi i fatti della politica, il gossip attorno a infantili dichiarazioni, la biografia individuale, prevalgono come metro di giudizio e di impiego del libero arbitrio elettorale – che prescinde dalla costruzione razionale di un pensiero critico, di un assetto ideale e culturale, per orientarsi, molto più di ieri, sulla percezione della realtà. In sostanza, un’ejaculata libera che, però, non feconderà alcunché. Quella life politics – come scrive uno dei più importanti analisti politici viventi, Luigi Di Gregorio, nel suo Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico (Rubbettino, 2019) – che penetra ovunque da quando “la televisione è diventata l’arena principale del conflitto politico”, con relativo adattamento paraculo degli stili di comunicazione, esaltazione (vannacciana) e “martirizzazione” (salisiana) compresi. Un’ “orizzontalizzazione” garantita anche dal mirabolante mondo marcio dei social, con cui esprimersi abbassandosi verso l’utente/spettatore, favorendogli la comprensione del nostro essere e del nostro volere, diminuendo toni e qualità dei contenuti per colpire, anziché richiedergli lo sforzo di comprenderci, contribuendo a formarlo correttamente, a renderlo consapevole nei limiti della liberalità. Bellezza del mondo presente, insolenza verso l’intelligenza. Crolla, così, l’aura di autorità e di solennità propria della politica che fu. Antipatica da vivere, certo, ma spesso garanzia di una visione più strutturata.

Insomma, operazioni di politica commerciale simili non possono che nascere all’ombra di una piccola pillola che molti non ingoieranno e di cui altri, invece, sono totalmente dipendenti: siamo passati dalle idee autorevoli, alle opinioni autoritarie.

Imparagonabili, Vannacci e la Salis, ma ora che soggetti simili  sono stati premiati sulla base di questi e altri principi, dovranno tradurre l’eccitazione emozionale in atti utili per il proprio Paese. Secondo voi lo faranno? E se sì, in che grado? Seguiteli anche fra due anni, quando i loro nomi saranno sbiaditi e vedrete. Vannacci salva la Lega, la Salis, i suoi. E questo giustifica quanto detto. Altrimenti avremmo avuto un risultato forte anche dal punto di vista del movimento ospitante, a sostenere la tesi contraria di un voto programmatico, ideale, razionale, partorito su una coltivazione dell’elettore.

E quale sarà lo step due del circo commerciale? La mirabolante gara tra i salvatori: il camerata Vannacci contro la pacifica compagna Salis.

Risulterò impopolare. Molto.

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