La nostra eredità
Da poco più di una settimana abbiamo perso un amico, un collega, un maestro: Gian Battista Bozzo, per tutti Lello. Il nostro Massimiliano Scafi ne ha già tratteggiato, con la sua penna piena di colori, un ottimo ritratto. Quello che noi possiamo fare con il nostro piccolissimo blog è, invece, cercare di recuperare, sia pure in maniera sommaria, la sua eredità culturale.
Per farlo, abbiamo pensato di chiedere un breve ricordo a Giulio Tremonti, già ministro dell’Economia e delle Finanze, che Lello ha sempre seguito come imparziale testimone sia a Via XX Settembre che nei meeting del Fondo Monetario Internazionale.
«Era autorevole, un “senatore” tra i giornalisti economici. Affidabile perché corretto e corretto perché affidabile. Questo lo ricordo assolutamente. È sempre stato molto obiettivo: non era affatto a favore del governo e non era neanche pregiudizialmente contro. Capiva che uno 0,1% di Pil in meno non era una tragedia, come era allora uso rappresentare da parte di molti suoi colleghi».
Queste semplici parole rendono perfettamente l’idea del patrimonio rappresentato da Lello e che tutti noi abbiamo il compito di non disperdere. Ecco perché, in questa breve memoria, partiremmo da quello «0,1% di Pil». Gian Battista Bozzo era un profondo conoscitore della finanza pubblica tanto da non ancorare il giudizio della validità di una politica economica in base ai decimali di maggiore o minore crescita. Tanto con un governo di centrodestra quanto con uno di centrosinistra l’analisi non poteva prescindere dai fondamentali, quelli che con una semplicità a volte «grossier» Wall & Street cerca di raccontare. E i fondamentali della finanza pubblica sono il livello delle entrate e la loro qualità così come la gestione delle uscite, cioè la spesa corrente che purtroppo ormai rappresenta la voce predominante del bilancio dello Stato.
Dunque, nel caso italiano, un governo di centrodestra può abbassare le tasse sperando nella ripresa e uno di centrosinistra aumentarle pretendendo di compiere un’opera meritoria di redistribuzione del reddito, ma entrambi non avranno mai affrontato il cuore del problema. A Lello non piaceva l’accanimento fiscale di Equitalia e allo stesso modo aborriva i comportamenti evasivi ed elusivi perché scorretti. Gli piaceva il fisco old style (così come il jazz di New Orleans), quella pre-riforma Vanoni nel quale contribuente ed esattore si mettono d’accordo sulla giusta cifra da pagare. Insomma, un fisco che non debba foraggiare una spesa pubblica esplosiva. Ma poiché Lello, nella sua immensa simpatia, era scettico sulla qualità della classe dirigente italiana nel suo complesso (prescindendo dalle virtù dei singoli spesso evidenziate dal loro stesso ruolo: il governatore di Bankitalia, il ministro dell’Economia, il direttore generale del Tesoro) .
In buona sostanza, era a favore delle privatizzazioni ma dubitava della capacità manageriale di coloro che avrebbero acquistato gli asset dello Stato. Era a favore della riduzione della pressione fiscale (aveva apprezzato la riforma tremontiana dei governi Berlusconi II e III) ma sapeva che essa avrebbe dovuto accompagnarsi a una pesante riduzione della spesa pubblica quando invece quei governi, per tenere a bada le componenti centriste e di destra, avevano accordati agli statali generosi aumenti contrattuali. Era contrario alla politica economica scritta a tavolino ma pure agli stanchi rituali della concertazione tra Confindustria e sindacati che nulla di buono avevano portato durante i governi del pentapartito negli anni ’80 e in quelli di centrosinistra degli anni ’90.
Lello era un europeista convinto ed era a favore dell’euro. Un paio di volte si era cercato di provocarlo scherzosamente sulla possibilità di un’uscita che contemplasse il ritorno al pieno controllo della moneta, svalutazione competitiva inclusa. Si era inalberato: non riteneva che la forte inflazione che ne sarebbe seguita sarebbe stata controllabile.
Non gli piaceva l’Europa a trazione tedesca, gli piaceva tutto ciò che era british e «Georgetown», inclusi Margareth Thatcher e Ronald Reagan. Ma non gradiva sentir parlare di flat tax (l’aliquota unica su redditi), che nemmeno Ron aveva alla fine realizzato, e sapeva che Maggie partiva da una situazione di «vantaggio»: l’economia britannica alla fine degli anni ’70 era talmente prostrata che le politiche liberali poterono essere realizzate senza grossi patemi d’animo (tranne la rivolta dei minatori del Northumberland). Insomma, poiché sapeva che il liberalismo non ammette scorciatoie, non poteva covare grandi aspettative in un Paese come l’Italia tutto incentrato sul principio generalizzato di deresponsabilizzazione.
Ecco perché per quasi 35 anni il Giornale è stato la casa di Lello. Difficilmente avrebbe potuto scrivere altrove e le occasioni per farlo, in ambiti e ruoli ancor più prestigiosi, non gli sono mancate. Perché aveva conosciuto Indro Montanelli e sapeva che, nonostante le trasformazioni successive in Via Negri, qualcosa dello spirito originario è sempre rimasto. Per questo motivo non gli sono mai piaciute le patenti di «montanelliano» dispensate a destra e a manca come se la maggiore o minore vicinanza alle idee del direttore fosse liquidabile come una questione di fisica se non di politica. Gli piaceva spesso ricordare un episodio dei suoi anni milanesi. Montanelli era in vacanza e al giovane Lello era toccato vergare il «Controcorrente», il sapido corsivetto quotidiano che un tempo albergava in prima pagina. Non aveva trovato niente di meglio che la notizia di un australiano che aveva inventato un sistema per schiacciare le mosche usando due giornali. Il testo si concludeva più o meno così: «E poi dicono che i giornali non servono a niente. Provate a farlo con due televisori!». Quel Controcorrente suscitò scalpore poiché i quotidiani concorrenti lo lessero come una critica di Montanelli nei confronti dell’allora editore Silvio Berlusconi. Lo stesso Lello si preoccupò, temendo per il proprio posto di lavoro. Montanelli lo rassicurò: «Ma va là, dopo un giorno se ne son già tutti dimenticati». Quello che noi non possiamo, invece, dimenticare sei proprio tu, Lello.
Gian Maria De Francesco per Wall & Street