Si è aperta oggi a Roma una mostra dedicata a Marcel Duchamp. Tra le tante opere esposte alla Galleria nazionale d’arte moderna (da oggi e fino al prossimo 9 febbraio) ne citiamo una che, in verità, potevamo già ammirare negli spazi di Valle Giulia, visto che fa parte dal 1970 della collezione permanente della Galleria. Si tratta della Boite en valise (1936-1941). E’ una delle venti “scatole in valigia” che Duchamp numerò, firmò e dedicò ad altrettanti destinatari. Quella della Galleria nazionale d’arte moderna è la numero 3 ed era dedicata a Henri-Pierre Roché, suo amico e sodale. Quest’ultimo è divenuto famoso anche da noi soltanto pochi anni dopo la sua morte. E per la precisione quando uscì nelle sale il film Jules et Jim che Francois Truffaut trasse dall’omonimo romanzo, pubblicato a Parigi nel 1953. All’epoca la principale attività di Roché era quella di collezionista d’arte. E quello di Jules et Jim può considerarsi come un “caso” letterario sui generis visto che non solo porta l’autore alla fama all’età di 74 anni, ma la storia che vi si racconta ricalca quanto vissuto dallo stesso Roché  nella sua giovinezza scapestrata e bohemienne a Montparnasse all’inizio del Novecento. E soprattutto della sua amicizia con Franz Hessel, scrittore tedesco noto anche come traduttore della Ricerca del tempo perduto di Proust. Un’amicizia che a Roché costò cara, visto che fu accusato di “intelligenza col nemico” ai tempi della Prima guerra mondiale, e quindi internato. Nel catalogo Adelphi si trovano entrambi i protagonisti di quella storia d’amore e di amicizia resa popolare sul grande schermo da Truffaut. Da un lato il celeberrimo romanzo di Roché, dall’altro Romanza parigina, controcanto di quella stessa storia dove ritroviamo due dei tre protagonisti. Accanto a questi due libri segnaliamo anche l’ultimo romanzo di Roché (altro triangolo amoroso): Le due inglesi e il continente (sempre pubblicato da Adelphi) e L’arte di andare a passeggio di Hessel, pubblicato due anni fa da Elliot. In quest’ultimo libro, che raccoglie brevi saggi, e note autobiografiche dello scrittore tedesco, si fa una delle più intense apologie della flanerie. Un’apologia che diventa necessariamente un tributo alla città dei flaneur per eccellenza: Parigi. Esaltata, la ville lumière, da un altro scrittore tedesco, Walter Benjamin, che vedeva anch’egli in questa “arte” tipicamente novecentesca (e ovviamente metropolitana) uno dei modi più efficaci per riconquistare un rapporto immediato con gli oggetti della vita comune. E soprattutto per consentire all’uomo contemporaneo di riappropriarsi di uno sguardo  “assoluto” sulle cose e sulla vita. Un po’ quello che, guarda caso, lo stesso Duchamp consigliava di fare attraverso i suoi ready made.

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