E’ presto per dire se il nuovo libro di Julian Barnes finirà per trovare un posto definitivo nella biblioteca di casa.  Le recensioni sono tutte di segno positivo. Perciò è altamente probabile che arrivi presto al rango di classico. Non fosse altro perché tratta un tema universale e sempre attuale come la perdita della persona amata partendo dal doloroso caso personale. La versione italiana è appena giunta nelle nostre librerie col titolo Livelli di vita (Einaudi). Gli inglesi parlano di questo testo come di un encomiabile memoir e questo per il fatto che Barnes aggiunge materiale autobiografico a storie e personaggi che prendono vita da fatti registrati e pure fantasie dell’autore. Nel libro compaiono tra gli altri il celebre fotografo Nadar e Sarah Bernardht. E soprattutto Patricia, la moglie di Barnes, morta di tumore nel 2008. In verità, a parte le riflessioni personali e la struggente rielaborazione letteraria di un lutto molto personale, Barnes si mantiene con questo lavoro nel binario già percorso con un celebre testo di qualche anno fa che adesso Einaudi ripubblica e che quindi possiamo già considerare se non un classico almeno un titolo di catalogo.

Si tratta della Storia del mondo in 10 capitoli e mezzo (traduzione di Riccardo Mainardi).

Gli elementi per farne un libro che sarà godibilissimo anche se letto fra cinque e dieci anni sono tanti. Il primo è senza dubbio il tema. La storia del mondo in 10 capitoli e ½ infatti mescola elementi storici con narrazioni ricche di invenzione. Dieci i capitoli per dieci storie che sono legate tra loro con l’esile filo del mito biblico della navigazione di Noè per salvare la specie umana e quelle animali dal diluvio.

Se la fonte di questo topos letterario non è storicamente documentabile, pur tuttavia sono in tanti, nel corso dei secoli a essersi serviti di Noè e della sua arca per giustificare idee bizzarre e immaginifiche imprese. Come quella di un ex astronauta, Spike Tiggler, che – una volta allunato – sente una voce imporgli di salire sul Monte Ararat per cercare i resti della celebre arca. O come quella che, con la stessa meta e con lo stesso scopo, ebbe come protagonista a metà dell’Ottocento la figlia del colonnello Fergusson. Cercava i resti di Noè e la sua mitica vite. E vi trovò invece l’ultimo (e scomodo) giaciglio.

Il libro però offre un’ottima lezione sulla Storia ufficiale e sul modo di smontare e ridimensionare luoghi comuni e “partiti presi”. Basta la forza, la caparbia energia di un tarlo per minare qualsiasi certezza. Anche quella che impone di pensare che sull’Arca non ci fossero clandestini. C’erano eccome. Erano migranti per necessità ma erano immondi, non erano apprezzati e soprattutto le loro doti e le loro caratteristiche erano temute. Oggi di quel mitico legno con il quale Noè e i suoi figli realizzarono la mitica arca non c’è più traccia. Il legno di Gopher è stato tutto mangiato dai tarli. Proprio quegli indesiderati ospiti che riuscirono a conquistare la sopravvivenza al diluvio grazie alla clandestinità. E furono loro a raccontare la storia delle efferatezze compiute con disinvoltura da Noè e i suoi figli. Altro che ordine divino, per Noè e per i suoi familiari – come racconta il tarlo testimone – “noi eravamo un self-service galleggiante. Per loro, nell’Arca, animali mondi e immondi non comportavano differenza alcuna. Prima la pancia piena, dopo la pietà: la regola era questa”. Lo stesso tarlo, prima di organizzare la fuga dall’Arca con lo stesso metodo usato poi da Ulisse nella caverna di Polifemo, ha modo di giudicare con una sentenza inappellabile gli uomini e la loro incomprensibile natura di teste pensanti. “La vostra specie ha qualche problema con la verità. Ignorare i dati negativi vi aiuta a tirare avanti. Chiudere gli occhi sul male finisce col persuadervi che il male non è esistito. Ve ne lasciate sempre sorprendere. Vi stupite che i fucili uccidano, che il denaro corrompa che d’inverno nevichi”. Tanta ingenuità, sentenzia il tarlo, “può riuscire seducente; ma rischia del pari, ahimè, di essere pericolosa”.

Aggiungiamo come terzo e ultimo elemento una lingua vibrante e colorita. Una costruzione linguistica vivace ma mai ridondante. Adeguato contraltare a un’invenzione a dir poco brillante. Ed è lo stesso Barnes a darci tra le righe il senso di questa operazione (ora ripetuta con altre modalità e con altri registri in Livelli di vita) “Fabulazione: ti abbarbichi a qualche dato autentico, intorno al quale elabori una storia tutta nuova”. E – nel caso di Barnes – altrettanto seducente e convincente.

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