La principessa di Clèves è uno di quei romanzi che possono insegnarci molto sull’amore. Non, beninteso, su cosa sia il sentimento amoroso o su come si presenti e su quali ne siano gli effetti e le cause. Bensì ci dice molto su come si possa raccontare. Sulle parole dell’amore, insomma, Madame de la Fayette (1634-1693) sembra una vera autorità. E ci stupisce anche. O, almeno, ha stupito a lungo gli storici della letteratura perché Madame de la Fayette non aveva molti esempi su cui rafforzare il suo talento. Eccezion fatta ovviamente per la lettura di Shakespeare e per l’amicizia e la frequentazione di Jean Racine e di Francois de la Rochefoucauld. Sono proprio le parole usate dall’autrice a ricamare, infatti, l’immagine perfetta dell’amore impossibile e della fedeltà coniugale. Un amore sublimato, quello della moglie del principe di Clèves, perché  impossibile dal momento che rivolto a un uomo che non era suo marito.

La trama di questo romanzo d’amore (ora ripubblicato da Neri Pozza) è più che semplice. C’è una donna, una bella donna. C’è un ottimo “partito”, nientemeno un principe, che viene sedotto dalla sua bellezza e da tutte quelle grazie, riunite in una sola persona, capaci di spiccare all’interno di un ambiente già di per sé abbagliante come quello della corte di Enrico II di Valois (re di Francia dal 1547 al 1559). I due si sposano salvo poi scoprire di essere innamorati di altre persone. Non c’è di che farne una tragedia. A quel tempo, come al tempo in cui è vissuta Madame de la Fayette (un secolo dopo, sotto il regno di Luigi XIV), tradire il principio di fedeltà matrimoniale era la regola.

L’originalità di questo romanzo, però, e – conseguentemente – dell’eroina che il romanzo immortala, è che questa non si piega ai sentimenti e alla passione. La giovane principessa di Clèves sa leggere bene il suo cuore e sa che questi è “preda” di un altro uomo (l’affascinante duca di Nemours, secondo le fonti del tempo amante nientemeno che della regina Elisabetta d’Inghilterra). Però non si arrende al costume e resta avvinghiata al valore della fedeltà coniugale, consumandosi e struggendosi sia per un amore praticamente impossibile sia per le ferite provocate all’orgoglio del marito.

Nella sua bella introduzione all’edizione Neri Pozza Isabella Mattazzi  spiega con sensibilità e intelligenza le qualità di questo testo. Qualità che durano ancor oggi, nonostante tutto. Eppure a leggerlo si rimane perplessi. Non perché non sia un grande testo letterario (in definitiva lo è senz’altro), ma perché – secondo quanto riportato dalla Mattazzi – è possibile ancora oggi farsi prendere da questa retorica dell’amore assoluto ma impossibile.

A pensarci bene, forse, un motivo per leggere e far leggere oggi il capolavoro di Madame de la Fayette c’è. La protagonista prima ancora che stretta dal rigore dei suoi principi è costretta nella gabbia delle convenienze e dell’etichetta di corte. E si muove, quindi, con una circospezione degna del più navigato degli ambasciatori. La dote che qui viene esaltata, prima ancora che quella dell’intelligenza o della sensibilità, è quella della dissimulazione. Non si sbandierano i sentimenti e i moti dell’animo. Tutto si dissimula e si maschera. Sfruttando non soltanto il rigore del comportamento ma anche la retorica di una lingua, il francese volteriano, particolarmente adatto allo scopo.

La Mattazzi nella sua prefazione ricorda di aver potuto ammirare  il documentario girato pochi anni fa da Regis Sauder in un liceo della periferia di Marsiglia, dove in una classe veniva effettuato un laboratorio di recitazione a partire proprio dal testo di Madame de la Fayette. “I ragazzi – ricorda la Mattazzi – hanno iniziato a farsi loro stessi testo, intrecciando alla passione tra Madame de Clèves e il duca di Nemours le loro storie di diciassettenni alle prese con l’amore, il conformismo, la lealtà, il tradimento”.

Però questo gruppo sociale e questa generazione è più avvezza, solitamente, a riconoscersi nei protagonisti dei reality. Quei programmi dove le regole del romanzo di Madame de la Fayette vengono letteralmente ribaltate. Dove, insomma, l’io deve essere sbandierato in tutte le sue debolezze; dove i sentimenti sono tutt’altro che nascosti e le emozioni tutt’altro che dissimulate; tutto si fa e tutto si mostra senza pudore e senza alcun freno. Dove lo spettacolo si ottiene proprio dall’eccesso di ogni cosa: dall’eccesso di spudoratezza, di ignoranza, di spavalderia e di anticonformismo (quest’ultimo, portato all’eccesso, ovviamente diventa puro conformismo). Nella società dello spettacolo di oggi si finisce quindi per essere soltanto animali da palcoscenico (nel senso deteriore del termine). Dove gli animali non hanno che istinto. Con la ragione ridotta ai minimi termini.

In questo senso forse l’operazione del liceo marsigliese è non solo coraggiosa ma anche necessaria. Leggere oggi La principessa di Clèves potrebbe essere non soltanto utile ma addirittura necessario. Essendo un testo che può insegnare ai ragazzi come imbrigliare i sentimenti entro un linguaggio rigoroso e attento, lucido ed elaborato. Perché ogni sfumatura dell’emozione amorosa possa avere il suo aggettivo e perché ogni conseguenza dell’amore possa essere presa in considerazione. Non esclusa quella della sua impossibilità, com’è stato il caso della virtuosa eroina di questo “modernissimo” romanzo.

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