Nei paesi anglosassoni (ma non solo lì) resiste una solida tradizione. I ragazzi usciti dalla scuola o dall’università si concedono il cosiddetto “anno sabbatico” prima di tuffarsi nella vita reale: fatta di impegno, lavoro e responsabilità. I più facoltosi acquistano un biglietto aereo per fare il giro del mondo. Altri si accontentano di passare questo lungo intervallo di tempo in qualche paese esotico oppure nel cuore della vecchia Europa. Altri, i più ma a anche i meno fortunati economicamente, si industriano nel fare lavoretti stagionali per avere almeno la possibilità di fare sei o quattro mesi fuori dai confini nazionali.

Gli osservatori illuminati plaudono a questa iniziativa. Serve, dicono, per aprire la mente, per fare nuove esperienze e per immagazzinare un sufficiente bagaglio di emozioni e ricordi da riscaldare anche i periodi più opachi della routine che li attende.

Leggendo, anzi rileggendo, uno dei testi più brillanti e acuti di Gilbert Keith Chesterton è proprio questa “sana abitudine” che mi è venuta in mente. Il libro in questione è Le avventure di un uomo vivo (Mondadori). Chesterton l’ha scritto nel 1912. E di certo allora questo vezzo dell’anno sabbatico non era ancora diventato una tradizione. Eppure il testo del celebre scrittore inglese può essere in qualche modo visto come un manifesto pionieristico di questa abitudine. In buona sostanza lo scrittore inglese confeziona un brillante testo umoristico (molto adatto anche alla trasposizione teatrale) nel quale riversare alcuni dei suoi più radicati convincimenti. Primi fra tutti ovviamente l’ottimismo e l’amore per la vita. In tempi in cui ancora andava forte il nichilismo e le ideologie materialiste, Chesterton ci ricorda che l’uomo comune per sentirsi vivo deve capire che il miracolo più autentico è la vita quotidiana.

Innocenzo Smith compare quasi all’inizio del racconto come un personaggio al limite della pazzia. Almeno secondo i canoni conformistici degli ospiti di Casa Beacon, la pensione che si erge nella parte più alta di Hampestead dominando tutta la valle del Tamigi e che fa da cornice al racconto. La dimora è gestita dalla signora Duke e i suoi ospiti un bel giorno vedono arrivare uno strano tipo. Arriva correndo con estrema agilità (nonostante l’evidente sovrappeso) e porta lo scompiglio nella ristretta comunità di Casa Beacon. Salta sui muri, tira pistolettate sui cappelli degli amici, sale sugli alberi ed entra nelle case buttandosi giù dai caminetti. E soprattutto cambia le prospettive delle persone con i suoi paradossi disarmanti. Gli ospiti della casa lo mettono alla sbarra. Si dividono in pubblica accusa (che lo vuole quantomeno in un manicomio per i tentativi di omicidio, per furto e per bigamia) e in difesa (che lo vuole semplicemente libero come ogni manalive deve essere). E le sue avventure e i suoi pensieri (sarebbe più giusto dire i suoi insegnamenti) vengono raccontati dai vari testimoni chiamati in causa dai giudici di Casa Beacon.

Alla fine si scopre che i tentativi di omicidio erano l’esatto opposto: vale a dire modi alquanto inusuali di far amare la vita a chi era caduto nelle maglie del nichilismo, mentre le accuse di furto e bigamia cadono quando si scopre che aveva semplicemente corteggiato sempre la stessa donna, cioè sua moglie. Per ritornare dalla quale aveva fatto il giro del mondo. E solo dopo un lungo peregrinare è potuto tornare in una casa e da una donna che apparivano nuove soltanto perché il nostro Innocenzo Smith era riuscito a riconquistare quello sguardo vergine e ingenuo sulle cose, proprio dell’infanzia.

Ecco la descrizione che dello stesso Innocenzo Smith fa un suo compagno di college: “Smith, quant’è possibile all’umana psicologia, era realmente innocente. Aveva la sensualità dell’innocenza; amava la glutinosità della gomma e tagliava un legno dolce con la stessa golosità con la quale avrebbe tagliato una torta. Per lui il vino non era una cosa equivoca da proibirgli, o contro la quale metterlo in guardia: era uno sciroppo dai colori attraenti, quale veggono i bambini nelle mostre delle botteghe. Parlava con superiorità, mettendosi sotto gamba la situazione sociale, ma non si dava punto le arie da superuomo della commedia moderna. Invece dimenticava se stesso, come un bambino a una festa. Aveva fatto una specie di salto dall’infanzia alla virilità senza conoscere quella crisi di gioventù nella quale la maggior parte degli uomini diventan vecchi”.

Questo romanzo-processo, che ci conduce alla conoscenza piena della vita e del pensiero di Chesterton, alias Innocenzo Smith, viene confezionato con il caratteristico humour britannico e con la leggerezza propria degli scrittori di vaglia. Magari qualcuno può storcere il naso perché, in fondo, si tratta di un romanzo ampiamente a tema, vale a dire un testo fortemente ideologico. Ma se di ideologia si tratta è quell’idea forte che ci fa amare la vita e ci fa ringraziare ogni giorno la buona sorte di averci messo di fronte cose meravigliose e “inusuali” come solo le cose (e le situazioni) comuni sanno essere a chi non smette di guardare il mondo attraverso gli occhi di un bambino.

Gli stessi occhi che sicuramente hanno tutti quei laureati che, nonostante il loro fresco bagaglio accademico, sanno guardare l’altro e il diverso da sé per capire fin dal primo istante tutta la meraviglia.

Ecco che qui si offre quindi una quarta strada possibile. Oltre al biglietto aereo per il giro del mondo (per i ricchi), oltre al giro in treno e magari in un “raggio” più ristretto (per i meno ricchi), oltre alla riduzione drastica della stagione sabbatica a vantaggio di un periodo dedicato a lavoretti per racimolare il denaro sufficiente per partire (per i meno abbienti), ecco la quarta ipotesi: acquistare e leggere attentamente Le avventure di un uomo vivo.

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