Vado spesso in Alto Adige. Vado lì perché mi piace il posto, mi piacciono le montagne. Vado lì perché si scia bene e si possono fare d’estate delle belle escursioni.  E ci vado da tanti, tantissimi anni. Quindi quando ho aperto il nuovo libro di Sebastiano Vassalli (Il confine – I cento anni del Sudtirolo in Italia, Rizzoli)  ero in cerca soprattutto di notizie, curiosità aneddoti che arricchissero la mia conoscenza dei luoghi.

Invece mi trovo di fronte un agilissimo pamphlet per il quale bastano poche ore di lettura. Scritto benissimo, ovviamente. Con tanto pathos, tanto coraggio e soprattutto con un’intelligenza e una sensibilità fuori dal comune. Però è né più né meno che un pamphlet dove Vassalli usa l’empatia verso quei luoghi e quella gente per liberarsi da dogmi, sovrastrutture e storie viziate dalla propaganda politica.

Parte dalla scelta dei protagonisti della politica internazionale che nel 1919 a St. Germain en Laye decisero che quella regione andava all’Italia per una banale questione pratica. Il confine naturale del crinale alpino era una cosa più semplice da gestire. E da lì non si ferma, con un veloce excursus fino alle regionali del 2014 dove Luis Durnwalder ha ceduto la guida della Provincia ad Arno Kompatscher.

Cita Alexander Langer come uno dei pochi politici che hanno steso la mano per la conciliazione (“Era un idealista che avrebbe meritato miglior fortuna e maggior seguito”). Onora il rigore di Silvius Magnago e la pragmaticità di Durnwalder.

E inserisce in un’ampia prospettiva la “questione italiana”, che in Alto Adige è stata davvero problematica. Prima l’immigrazione forzata per motivi politici, poi l’aberrante scelta imposta dal patto Hitler-Mussolini con i residenti costretti a scegliere la nazionalità italiana o quella di uno Stato, la Germania nazista, impegnato su più fronti bellici e quindi bisognoso di rinfoltire i ranghi militari. E in mezzo la storia della sopraffazione culturale. Di un ventennio che ha praticamente imposto la italianizzazione di Bolzano e Merano (dimenticando, però, per mancanza di tempo e di risorse, le valli più lontane e difficilmente raggiungibili).

Trent’anni fa (quando per la prima volta Vassalli andò in Alto Adige) i turisti si stupivano della legnosità dell’italiano parlato dai valligiani. Di quella loro pronuncia spigolosa e di quel vocabolario ridotto. Non accorgendosi, però, di un fatto fondamentale. Che i sudtirolesi avevano dovuto impararlo l’italiano e che si erano dovuti assoggettare a una cultura e a un’amministrazione che non li rappresentava, mentre gli italiani, quei pochi che c’erano, si sentivano padroni in casa propria e non rinunciavano a niente, senza fare il benché minimo passo per la comprensione del diverso da sé.

E’ stato il Ventennio, secondo Vassalli,  a fomentare l’odio e le incomprensioni tra i due gruppi etnici. Ricorda le elucubrazioni di Ettore Tolomei, colui che il fascismo ha arruolato solo quando già era a buon punto nella sua teorizzazione dell’Alto Adige come terra da sempre italiana! C’è stata la pagina discutibilissima della realizzazione del monumento alla Vittoria di Bolzano (che Vassalli ha il coraggio di bocciare senza appelli). A volo d’uccello sorvola, poi, la tragica stagione delle bombe, ricordando gli innocenti caduti sotto i colpi degli indipendentisti. E’ vero che anche la Volkspartei ha scelto la via democratica. E’ vero che Silvius Magnago ha avuto l’onore di portare la questione tirolese all’assemblea dell’Onu, ma l’Italia repubblicana ha saputo riparare con intelligenza gli errori commessi dal Fascismo. E il plauso maggiore va a Giulio Andreotti. L’Italia democristiana ha accettato le quote proporzionali per etnie negli uffici pubblici, come male minore. Come amara medicina per curare un male ben più insidioso. Langer le disprezzava. Le chiamava “gabbie etniche”, ma hanno permesso di riequilibrare le cose nell’amministrazione provinciale e soprattutto di lenire il sentimento di odio reciproco.

Ora, ci sta pensando la globalizzazione, a stemperare sempre di più le differenze tra italiani e tirolesi. L’industria turistica vola, la provincia regala delle eccellenze imprenditoriali di cui l’Italia porta il vanto, il tasso di disoccupazione è tra i più bassi e il rispetto dell’ambiente qui ha un senso concreto. Però lo spirito indipendentista ha perso smalto. Anche Andreas Hofer, l’eroe indipendentista,  qui omaggiato e venerato come Maradona a Napoli, non è più lo stesso. Se si percorre la statale del Brennero in direzione del valico, per esempio, si incrocia una gola strettissima poco sopra Fortezza. E’ un luogo caro alla memoria storica dei tirolesi, perché luogo di una delle battaglie (4 agosto 1809) in cui gli Schutzen di Hoffer misero in fuga le truppe napoleoniche in marcia verso Bolzano. Qui c’è un rinomato ristorante-birreria che sul menu ricorda gli eroi di quei giorni e la storia di quel luogo, ma lo fa in un ambiente molto moderno. Tutto design e tecnologia. Qui l’odio ha lasciato il posto alla buona tavola e al piacere gastronomico.

Per nostra fortuna ci avviciniamo alla data del centenario (10 settembre 1919) con animo più sereno. Ancora c’è molta strada da fare, ma l’odio sembra essere sconfitto.

 

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