Kent Haruf e l’umanità del possibile
Quando vedi qualcuno, che solitamente non legge molto, rimanere con lo sguardo incollato tra le pagine di un libro la prima reazione è sempre la stessa. “Ma cosa starà leggendo?” Quella purtroppo naturale ritrosia alla lettura viene vinta da un libro che non può non avere delle caratteristiche quasi magiche, mi ritrovo a supporre. E la conseguenza di quella mia prima osservazione è il desiderio di soddisfare una incipiente e insostenibile curiosità. Come sarà quel libro? A me è successo di recente con l’ultimo romanzo di Kent Haruf. Per uno che tutti i giorni sfoglia libri e giornali, ovviamente, non si tratta di un nome sconosciuto. So bene che è uno dei casi letterari di questi ultimi anni. Come anche non ignoro il fatto che lo scrittore americano recentemente scomparso sia divenuto in un certo senso il testimonial d’eccezione della casa editrice NN, impresa ancor giovane ma ambiziosa e piena di energie positive. Insomma tutti ne parlano, tutti sfoggiano i tre tomi della cosiddetta Trilogia della pianura o l’ultimo volume appena uscito Le nostre anime di notte ( mirabilmente tradotto come gli altri da Fabio Cremonesi). Quando però vedi una persona, che ti sta vicino e la cui ritrosia alla lettura conosci bene, rimanere con lo sguardo incollato alle pagine del libro, allora capisci che dovrai leggerlo anche tu. In effetti Le nostre anime di notte è un romanzo da leggere. Perché ci offre una risposta affatto nuova a una domanda che da sempre ci poniamo: si può raccontare un amore felice? Denis de Rougemont nel sul celebre saggio L’amore e l’Occidente (Rizzoli) spiega a più riprese che no, non è possibile. E si compiace di portare a sostegno della sua tesi non soltanto la lirica cortese, le eresie catare, ma anche campioni della letteratura moderna come Dostoevskij e Tolstoj. Per tornare alla domanda in relazione al romanzo di Haruf, la risposta non è né affermativa né negativa. Anche per non togliere il piacere della lettura di questo libro ai suoi futuri lettori, mi limito a dire che ci offre una nuova declinazione della relazione amorosa. Abbastanza inedita (per quanto questo sia possibile), con sfumature e colori nuovi. Con dialoghi affatto originali e intensi. Come già dimostrato con la Trilogia della pianura, Haruf riesce a costruire con pochi tratti personaggi molto credibili e ricchi di umanità. In questo caso, nel caso appunto del suo ultimo romanzo (la cui riduzione cinematografica, con Robert Redford e Jane Fonda protagonisti, dovrebbe uscire a fine anno) siamo ancora nella immaginaria cittadina di Holt in Colorado. Addie e Luis vivono in due villette ai limiti opposti dello steso isolato. Hanno superato la settantina e sono entrambi vedovi. Una sera Addie è presa da un impulso improvviso. Va a trovare Luis e gli fa una proposta: passare insieme le notti, il momento ovviamente più difficile della giornata. Per parlare, per tenersi compagnia, per sostenersi, per sentirsi ancora vivi. Luis accetta ed è il suo pragmatismo, la sua disarmante onestà, il suo ottimismo quasi naïf che per primo ci spiazza. Addie invece è una donna forte e determinata. Un bel caratterino, insomma. Che però conosce bene i propri limiti e non si fa scrupolo di appoggiarsi a una mano tesa. Il rapporto si trasformerà, lentamente, progressivamente. E lentamente e altrettanto progressivamente inizieranno i guai. Perché i due vivono pur sempre in un quartiere middle-class di una piccola cittadina della provincia americana. Addie e Luis, però, non mollano e Haruf – anche lui coetaneo dei due protagonisti quando scrive il romanzo – ci mostra tutte le qualità della vecchiaia. L’intelligenza ancor viva e resa ancor più solida dal bagaglio di esperienze accumulate; la moderazione nel gestire le emozioni, la voglia di vivere ancor più forte e radicata che nei giovani, e quel continuo ricorrere ai vantaggi di un’attività di riflessione piuttosto che cedere d’istinto agli impulsi più immediati e primitivi. Tutto il contrario, insomma dei giovanissimi Montecchi e Capuleti di shakespeariana memoria. Non hanno l’ardore di Romeo e Giulietta ma la loro piccola fiammella sanno farla durare. Non immaginiate, però, si tratti di un romanzo a lieto fine. Altrimenti il suo successo farebbe rivoltare nella tomba il conte Tolstoj. No, non vi tolgo la sorpresa. Aggiungo soltanto che Haruf ha un dono. La sua scrittura. Che senza dubbio fa subito pensare al minimalismo americano. Quello, per intenderci, che da Raymond Carver in poi ha pesantemente condizionato il romanzo d’oltreoceano dell’ultimo scorcio del Novecento. Qui, nelle pagine di Haruf si sentono echi di David Leavitt e di Susan Minot, per citarne soltanto un paio. L’autore della Trilogia della pianura ha però dalla sua una profondità ben maggiore. D’altronde ciò che vogliamo, anzi esigiamo dai romanzi, è portarci al fondo dell’animo umano, di farci toccare l’umanità del possibile. E Haruf ci accontenta sempre.