Stephen King diventa grande con Harry Potter
La prima cosa che ho fatto, una volta conclusa la lettura dell’ultima pagina di On writing di Stephen King, non è stata quella di accendere il computer e far partire il programma Word per iniziare a scrivere. La prima cosa che ho fatto è stata di andare in libreria a cercare qualche romanzo dello scrittore americano. E in questo snobbando proprio l’ultimo consiglio lanciato dalle pagine di On writing. King, il padre di Misery di Carrie e di tante altre straordinarie creature romanzesche, stava per consegnare al lettore la “bella copia”, la copia finale, di un brano di un suo racconto. Avrebbe dovuto, visto che aveva appena proposto le prime versioni con tutte le revisioni del caso. Alla fine però ha desistito. Qui dovete imparare come si assembla una macchina non avete bisogno di fare un giro sulle macchine degli altri. Per qui, ovviamente intendeva il libro sulla scrittura creativa, che forse è stato uno dei più impegnativi della sua carriera di scrittore. Ci ha messo tempo, passione, ma ha dovuto anche affrontare una montagna di scrupoli. Lo voleva corto e agile. Semplice e preciso. Ma soprattutto onesto.
E devo dire che ci è riuscito. Mi permetto di inserire On writing (edito in Italia da Sperling & Kupkfer) in questo blog perché a mio avviso è un libro da tenere da conto non solo per chi ambisce a diventare scrittore ma anche semplicemente per il lettore, quello appassionato. Quello soprattutto che non è snob o altezzoso. E che va a cercarsi emozioni romanzesche un po’ dovunque. Pescando tra i generi in maniera trasversale avendo come unica regola: la qualità.
Da vero maestro della fiction, King sa essere coinvolgente anche quando parla di se stesso. Non vi dico il disagio che ho provato – ad esempio – quando ha descritto l’incidente stradale di cui è stato vittima all’inizio dell’estate del ’99. Sembrava davvero la pagina di un suo romanzo. Con un dosaggio calibrato tra azione e descrizione, tra movimenti esteriori, dialoghi e sensazioni interiori del narratore/protagonista. Ti è impossibile, leggendolo, non calarti nei panni del personaggio e quelli di uno scrittore a spasso con il cane che viene centrato da un suv sul ciglio di una statale non sono proprio i più invitanti da indossare.
Ma qui mi interessa sottolineare due cose di questo libro. La prima riguarda i suoi consigli di scrittura. Non posso dire se siano mai stati efficaci. Mi servirebbe avere un riscontro da qualcuno che è diventato scrittore dopo questa illuminante lettura. Posso però riconoscere che a differenza di tanti manuali di scrittura creativa che mi sono capitati tra le mani (come anche quelli pur ottimi di Raymond Carver e Vincenzo Cerami) questo di King ha dalla sua l’essere schietto e onesto proprio perché parte da se stesso. Non racconta principi generali, non nasconde l’autore dietro regole oggettive. Mette se stesso sotto i riflettori e in effetti non sbaglia. Il suo successo è sicuramente garanzia di un fatto: il suo metodo di lavoro non si può considerare inefficace (almeno per lui).
La sua onestà, il suo desiderio di essere empatico e schietto, lo rendono a tratti anche comico. Come quando confessa la sua avversione per la forma passiva e – soprattutto – per l’avverbio. Per non dire di cosa pensa delle parole lunghe, quelle difficili e ricercate. “Correreste – dice – un grave rischio per la vostra scrittura imbellettando il lessico, andando a caccia di parole lunghe forse perché vi vergognate di quelle brevi che usate. Sarebbe come vestire da sera il cagnetto di casa”. E poi accanto alle idiosincrasie c’è spazio anche per l’amore. Come quello per le metafore. “Leggere e scrivere questo genere di figure retoriche – spiega – è una delle gioie della narrativa. Se azzeccate, equivalgono a incontrare un vecchio amico in mezzo a una folla di estranei”. Chiamando a raccolta come esempi per lui insuperati T. S. Elliott, William Carlos Williams e i suoi “colleghi” Chandler e Hammett.
MI ha colpito poi (ecco il secondo elemento) l’elenco di titoli di romanzi letti posto in appendice. Anzi i due elenchi. A margine della seconda edizione fa un elenco dei libri che lui stesso ha letto e che a quanto dice possono averlo influenzato (non tutti i libri che ha letto ma solo quelli che lo hanno colpito favorevolmente) tra la prima e la seconda edizione di On writing. Li mette in ordine alfabetico Raymond Carver di Da dove sto chiamando viene subito prima di Lupi mannari americani di Michael Chabon che a sua volta precede Latitudine zero di Windsor Chorlton, Il poeta di Michael Connelly e Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Dell’elenco fanno parte i nomi più disparati, da Dickens a De Lillo, da Roddy Doyle a Elizabeth George, Thomas Harris (Hannibal) e Il senso di Smilla per la neve di Peter Hoeg, Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Città di pianura di Cormac McCarthy accanto a Il giardino di cemento di Ian McEwan, Joyce Carol Oates con Zombi e Donna Tartt con Dio di illusioni. E poi ancora Anne Tyler con Le storie degli altri e Waugh con Ritorno a Brideshead. Pignolo com’è, per la terza edizione fa altrettanto e quindi accanto all’elenco di cui sopra ecco aggiungersi un altro elenco aggiornato fino al 2009 dove compaiono Lethem, Franzen, Philip Roth e la saga di Harry Potter.
Insomma sono rimasto basito. Non solo il suo modo schietto e pratico di dar consigli di scrittura tradisce in tutta evidenza un pragmatismo di stampo protestante davvero insolito dalle nostre parti, ma la sua curiosità affatto trasversale dimostra che non ci sono steccati o confini che reggano. Si può essere – come nel suo caso – il re dell’horror o della science fiction ma si va comunque in libreria a prendere, leggere e trarre profitto dagli ultimi titoli di Philip Roth e Ian McEwan. Si può leggere con passione e godimento Franzen e fare altrettanto con la saga di Harry Potter. Ditemi voi: c’è da noi un nostro “grande” scrittore capace di ammettere una simile apertura mentale?