Chi ama i cani non legga Kundera
Non ci si bagna mai nello stesso fiume. Stesso discorso per i libri. Ovvero i classici, i cosiddetti evergreen. Non si legge mai lo stesso libro. Una legge scontata. Siamo noi lettori a essere sempre diversi ed è per questo che il testo che abbiamo davanti ci dirà sempre qualcosa di nuovo. Mi è capitato l’altro giorno riprendendo in mano L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera. Lo lessi poco più di trent’anni or sono quando fu lanciato in maniera affatto anomala dalla trasmissione Quelli della notte con Renzo Arbore e Nino Frassica. Il giovane Roberto D’Agostino inserì il romanzo, pubblicato soltanto l’anno prima (nel 1984) dalla Adelphi, nell’elenco delle cose che caratterizzavano in quello scorcio degli anni Ottanta il perfetto radical chic. La citazione di D’Agostino divenne in breve un tormentone, anche grazie al seducente titolo del libro dello scrittore boemo. Un titolo criptico e stuzzicante. Che ricompare a pagina 128 a proposito dei tradimenti di Sabina, artista praghese che gira il mondo in cerca di emozioni e di ispirazione. Se il dramma umano, spiega Kundera, si esprime con la metafora della pesantezza, la vita di Sabina era connotata “dall’insostenibile leggerezza dell’essere”. Tradisce il suo amante quasi senza un motivo. Vale a dire senza sapere cosa si celi dietro questo suo desiderio. Il romanzo respira già dell’atmosfera della città (Parigi) dove da anni si era trasferito Kundera. Il suo in fin dei conti altro non è che un conte philosophique dove i personaggi nascono a tavolino come burattini nelle mani del demiurgo che ha come necessità quello di vedere materializzarsi tutte le possibilità dell’agire umano. Insomma il romanzo come moltiplicatore di possibilità, soprattutto nel gioco delle relazioni. Ed ecco quindi Tomas, Teresa, la già citata Sabina e Franz comparire a più riprese nel libro per mostrare la loro avventura umana. Osservata e analizzata da punti di vista differenti per aumentare il fascino di un affresco davvero impressionante per esattezza e per vivacità dei colori. Ai detrattori di Kundera (e ce ne sono tanti) non piace proprio il fatto che il narratore sia così debordante da dirigere i “suoi” personaggi quasi stando accanto a loro. E questa sua vicinanza finisce per far perdere alle storie d’amore quella immediatezza e profondità che dovrebbero avere sempre e comunque. Sono belle, sì, e suggestive. Un tantino estetizzanti, forse. Però non restano indelebili – dicono gli scettici – nella nostra memoria. Anche se, oggi me ne rendo conto, erano proprio quelle storie d’amore (soprattutto la relazione tra Tomas e la bella Teresa) che si impressero nella mia mente di ragazzo. Oggi, però, capisco che in questo conte philosophique le storie d’amore sono messe lì proprio per gettare fumo negli occhi. Dietro loro fa capolino altro. Uno sferzante attacco all’ideologia comunista, alla povertà intellettuale dei dirigenti comunisti praghesi all’epoca dell’invasione russa. Un attacco portato avanti con efficacia ed eleganza grazie a Sofocle e al mito di Edipo. I magistrati di allora non potevano rivendicare l’innocenza di non sapere che comminavano pene ingiuste e terribili a persone non colpevoli. E che in confronto a loro Edipo sì che era migliore. “Nessuno nel profondo della coscienza – scrive – è più innocente di Edipo. Eppure egli si punì da solo quando vide ciò che aveva commesso”. Eppure i magistrati e gli alti dirigenti del partito si sono sempre assolti. Altra pagina che oggi – a trent’anni di distanza – ha attirato la mia attenzione è quella sui vigliacchi e sulle ritrattazioni. Tomas deve ritrattare un articolo che gli ha causato tanti guai proprio dopo l’invasione russa del suo Paese. E scopre che tutti sia i duri oppositori del regime che i sottomessi vogliono la sua ritrattazione. Solo un grande scrittore poteva trovare analogie tra due categorie apparentemente contrapposte. “All’improvviso – scrive – Tomas si rese conto di un fatto strano. Tutti gli sorridono, tutti desiderano che lui scriva la ritrattazione, tutti ne gioirebbero! Gli uni sarebbero felici, perché l’inflazione di vigliaccheria renderebbe banale il loro comportamento e restituirebbe loro l’onore perduto. Gli altri si sono ormai abituati a considerare il loro onore come un privilegio speciale al quale non vogliono rinunciare. Nutrono perciò un segreto amore per i vigliacchi: senza di essi, il loro coraggio diventerebbe una fatica banale e inutile che non stupirebbe più nessuno”. Altre pagine che oggi mi colpiscono sono quelle relative alla malattia e alla morte del cane Karenin. Il cane che tiene uniti fino alla fine Tomas e Teresa. Pagine bellissime e toccanti. Quasi che tutta l’empatia dello scrittore finisca per sintetizzarsi nella sua pietà nei confronti dell’animale. Non amo particolarmente gli animali. Mi ritrovo a pensare, però, che se li amassi molto il racconto della malattia di Karenin, così toccante nella sua vivida esattezza, mi farebbe star male. E sono pure le pagine finali. Quelle dove anche la bella, lunga e travagliata storia d’amore tra Tomas e Teresa arriva a un poetico e drammatico epilogo. Un finale che riscatta il romanzo e lo emancipa dall’etichetta di conte philosophique. Un romanzo da rileggere. E che rileggerò ancora.