Ogni scusa è buona per riprendere in mano un capolavoro dell’infanzia. Mio figlio mi chiede se ho nella mia biblioteca personale Alice nel paese delle meraviglie. Ovviamente rispondo di sì e lo vado a prendere. Quando glielo consegno, però, non riesce a celare un velato disappunto. Sembra non gradire. Eppure è un libricino smilzo. Molto smilzo. Il pomeriggio seguente scopro che è andato in libreria ad acquistarne un’altra edizione. Ha optato per l’ultima versione della Mondadori nella collana ragazzi, con la splendida traduzione di Masolino D’Amico. Quando mi accorgo dell’acquisto ci rimango male e cerco anche di rimproverarlo. In fondo l’edizione che gli avevo proposto era tutt’altro che pessima. È vero che l’aspetto non era molto invitante (si tratta di una vecchia collana di libri che usciva con l’Unità quando a dirigerla era Walter Veltroni). Erano volumetti scarni (spesso divisi in due tomi per esigenze economiche, dato che il volumetto in questione veniva dato in regalo a chi acquistava – correva l’anno 1993 – una copia del giornale fondato da Antonio Gramsci). Una copertina di un lilla spento, senza tanti fronzoli, e un corpo molto ridotto con un interlinea al minimo sindacale per risparmiare carta. Tutti dettagli che non impressionano un adulto ma che certo spaventano un ragazzino. Quell’edizione del capolavoro di Lewis Carroll, però, vantava un traduttore d’eccezione: Aldo Busi. Così, mi sono messo a rileggerlo. E devo dire che non è stato tempo perso. È vero che le avventure della piccola ma curiosa e coraggiosa Alice sono state ordite per appassionare un pubblico di bambini, però i tanti giochi verbali, i paradossi, e fuochi d’artificio del nonsense sanno far compagnia ancor oggi al lettore adulto. Soprattutto se c’è un’adeguata traduzione. Appassionata, disinvolta quanto basta, ardita e vivace. E la penna di Aldo Busi risponde perfettamente a queste esigenze. Forse i lettori del 1988 (data della prima apparizione della traduzione busiana) potevano sapere cosa volesse dire “a letto subito dopo Carosello”. Oggi anche la traduzione dell’autore di Seminario sulla gioventù avrebbe bisogno di note. Però che spettacolo quando la Duchessa e il coro canticchiano “Dadaumpa, dadaumpa”! E’ proprio vero che le traduzioni ravvivano un classico, che sono capaci di donargli quello smalto che il tempo ha sbiadito. Poi ovviamente c’è di più. C’è l’intelligenza e il talento di Carroll che ha saputo addomesticare la grammatica del sogno per esorcizzare le paure dei bambini. Alice, grazie al Bruco che le suggerisce di mangiare un certo fungo (era, quello di Carroll, uno dei libri preferiti dagli aedi della controcultura degli anni Sessanta in America), sa controllare la sua crescita. Riesce a tornare minuscola o a crescere a dismisura quando serve. Sa anche rinunciare alla curiosità, che per prima le aveva fatto superare quella siepe dietro la quale era scomparso il Coniglio Bianco, quando capisce che il processo finale con le regole del paradosso e del nonsense non si può accettare. No. Alla fine cresce.Realizza che può sconfiggere i soldati della Regina. Altro non sono, questi, che carte da ramino. Insomma la maturità, per Carroll, è un’assunzione di responsabilità di fronte al torto inaccettabile di un processo farsa. Come ogni capolavoro che si rispetti, la storia di Alice, può dire molto ancora. Può essere usata come paradigma (e infatti tante storie per piccini da allora a oggi sono realizzate sulla falsariga di questo canovaccio). Può divertire l’adulto che trova calambours inediti grazie a una nuova e più coraggiosa traduzione (tradurre è pur sempre tradire). E soprattutto ci lascia una profezia sbalorditiva. In uno dei tanti momenti di sconforto la piccola protagonista sbotta: “Stavo meglio a casa mia, almeno là non si passa il tempo a crescere e a restringersi e a essere messe in riga da topi e conigli. Eppure… Eppure… Quando leggevo le fiabe, e ne succedevano di tutti i colori, non ci credevo, e invece eccomi qui nel bel mezzo di una fiaba! Bisognerebbe scrivere un libro su di me, sarebbe un best seller! Da grande me ne scriverò uno io… ” Ma anche qui c’è molto di più. C’è una storia nella storia. E non solo per questa piccola digressione metaletteraria. C’è di più perché Busi si concede un’aggiunta al testo originario. E lo fa, oltretutto, con un’espressione inglese. Carroll non aveva nemmeno sperato che potesse essere un libro pubblicabile. E men che meno un libro di successo. Per lui era soltanto un divertimento. Un piccolo hobby. Un omaggio al mondo dell’infanzia. A farla diventare una profezia ci pensa proprio Busi. Che inserisce quel “best seller” a bella posta. Piccolo tradimento ma grande omaggio. Con quel pizzico di furbizia che se usata da un grande scrittore certo non stona.

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