Esistono libri che hanno titoli respingenti. Che non ti fanno venire voglia di essere presi e letti. Libri che, come Le parole tra noi leggere di Lalla Romano, prendono in prestito il verso di una poesia (in questo caso di Eugenio Montale). Libri che sembrano affidare il proprio destino a slogan pubblicitari.  Questo genere di titoli andava tanto di moda qualche decennio fa. Il libro della Romano, per esempio, è uscito nel 1969 (per Einaudi). Ed ha avuto un grande successo di pubblico e non solo. Ha vinto anche il premio Strega. Mi sono trovato a leggerlo semplicemente perché era stato citato in un altro libro. E la citazione mi aveva incuriosito. Altrimenti di sicuro, con un titolo simile, non l’avrei mai preso in mano.  Per fortuna non ho dato retta al mio istinto. Si tratta infatti di un romanzo molto coinvolgente. Rigoroso. Pieno di spunti. Estremamente stimolante per il lettore. Il romanzo mette a fuoco il rapporto madre-figlio. La madre, però, è soltanto il narratore della storia. Rigorosamente suo il punto di vista. L’oggetto dello sguardo, però, è il figlio: Piero. E anche noi lettori iniziamo a seguirlo dalla nascita, via via, fino all’età matura (cioè primo impiego e matrimonio), passando per l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza. Il ragazzo entrerà nell’età matura – quella dell’impegno e delle responsabilità – proprio a ridosso del ’68. E’ questa una coincidenza poco cercata, almeno stando a quanto hanno detto a suo tempo i critici che questo libro hanno sezionato in tutti modi. Pur riconoscendo che era volontà dell’autrice mettere a confronto due stili diversi e antitetici di educazione: quello repressivo dell’immediato dopoguerra e quello permissivo (montessoriano) dell’età del boom economico.  Per tutto il libro questi due parametri si danno battaglia, con un narratore/autore che non si permette di far pendere la bilancia a favore dell’uno o dell’altro. Il narratore,  però, è la stessa Lalla Romano. Pittrice e scrittrice, prima ancora che mamma. E la sua maternità la vive con una consueta, per quei tempi, problematicità. Vuole capire, vuole studiare il figlio. Vuole, anzi vorrebbe, scioglierne l’ermetismo. Lo tratta come un’opera d’arte, dal momento che per ogni donna il figlio è un parto anche artistico. Un’opera che nasce dal ventre e che poi, a poco a poco, si emancipa diventando altro. Non soltanto agli occhi del mondo, ma anche a quelli materni. Il libro parla soprattutto di un conflitto: quello delle forme con cui si trasmette l’amore. Il figlio accoglie ovviamente con piacere l’amore materno ma ne rifiuta la forma, e la stessa cosa si può dire per la madre. Che come tutte le madri ha difficoltà a capire l’erede. Il romanzo, molto letterariamente, procede grazie alla riproduzione del carteggio tra i due. Che si tratti di telegrammi, cartoline, pagine di diario e soprattutto lettere, poco importa. I due si parlano con la scrittura e da essa noi impariamo a conoscerli. Grazie soprattutto a tante lettere. A quei tempi (siamo nel periodo compreso tra la metà degli anni Cinquanta e i primi Sessanta) era consuetudine scriversi.  E come per un’esegesi letteraria, l’analisi e la descrizione della vita e del carattere del figlio rischia di risultare per la Romano un buco nell’acqua. Tanto che nel passo più citato del libro il narratore confessa: “Mi sono messa a scrivere di lui nell’intento – a livello della conoscenza – di ricomporre, così da poterlo leggere (come si dice leggere un quadro) un personaggio ermetico e perciò stesso emblematico. Ebbene temo di aver appena scalfito – o forse nemmeno – il blocco della sua personalità. Temo di avergli girato intorno come nella vita”. Insomma la borghese Romano rimane interdetta di fronte a un figlio che la spiazza ad ogni passaggio. Piero si dimostra asociale, anticonformista, ribelle e riottoso all’insegnamento familiare come a quello scolastico. Un perfetto apripista per i sessantottini. Eppure, alla fine, sarà egli stesso scrittore. Di lì a poco, infatti, sarebbe uscito presso Mondadori il romanzo del figlio, Piero Monti, con il titolo Il ponte di quarta. Alla fine il ragazzo, diventato uomo, avrebbe seguito le orme materne (pur accettando di lavorare in banca come il padre). Finendo, quindi, per integrarsi pienamente nell’orizzonte di valori genitoriali. Un esito altrettanto spiazzante per la madre/narratore che fino all’ultima riga dell’ultima pagina continua a stupirsi del figlio. Uno stupore naturale, dal momento che l’istinto materno viene sconfessato ad ogni sussulto, ad ogni interlocuzione. E non può essere altrimenti.

Resta un libro fondamentale, non soltanto per intendere al meglio la sensibilità di quei tempi. Molte sue pagine, anche involontariamente, gettano una luce chiarificatrice su tante zone d’ombra del Sessantotto. Poi, alla fine, mi chiedo anche se sia possibile scrivere oggi un libro come questo. Oggi che i genitori non sono più dalla parte del corpo insegnante. Oggi che gli stessi genitori difendono tutte le debolezze e manchevolezze dei figli. Oggi che i valori da trasmettere sono esclusivamente materiali. Oggi che non c’è più decoro e rigore. Oggi che non c’è più, poi,  un dialogo pur se formale. Oggi che l’unica forma di scrittura che condividono padri e figli è quella dei messaggi whatsapp con l’incognita ermeneutica del T9.

ps

Leggendo l’illuminante prefazione di Cesare Segre al Meridiano della Romano ho scoperto che il titolo (Le parole fra noi leggere) non piaceva nemmeno all’autrice. A sceglierlo furono i responsabili della Einaudi.

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