Come si arriva alla scelta? Quale processo c’è dietro la semplice azione di prendere un libro in mano, aprirlo e leggerlo? Cosa ci fa incuriosire di un titolo, di un autore? Sono interrogativi che accompagnano gli studiosi e gli esperti di editoria da decenni. E in maniera organizzata almeno dai tempi della nascita dello strutturalismo. Quanto Gérard Genette con il suo Soglie (Einaudi, 1989, con la traduzione di Camilla Cederna) fece entrare il “paratesto” (tutto ciò che c’è intorno al testo) nel messaggio dell’autore (e dell’editore) per il potenziale lettore. Oggi più che mai, però, gli interrogativi che si possono sollevare su questo tema non sono dovuti al significato del lavoro editoriale e a quanto spazio ha il marketing e la pubblicità nel promuovere un libro e il suo autore. Oggi la domanda più urgente riguarda la curiosità. Cosa ci incuriosisce? Ma, soprattutto, ci incuriosisce ancora qualcosa? Per chi, come chi scrive, è abituato a leggere non c’è problema a rispondere. A stimolare la nostra curiosità (una sete che non si placa mai, anzi più si fa per placarla e più brucia la gola) sono le testimonianze e le auctoritas. Un amico che ci racconta quanto ha trovato divertente un romanzo di Wodehouse ci indurrà quanto meno a sfogliare il catalogo di questo autore inglese (compulsando in tutta fretta la sua voce su Wikipedia), un collega cita distrattamente una lettura che l’ha illuminato e noi andremo di corsa a recuperarla per essere abbagliati dalla stessa luce chiarificatrice, e così via. Poi ci sono le auctoritas  quegli autori, quegli artisti o personaggi pubblici che con il loro successo e il loro carisma rappresentano uno sponsor privilegiato.

Partendo da un esempio, ovviamente personale, cerco di sviluppare meglio questo concetto per poi arrivare a conclusioni tutt’altro che consolanti.

Da pochi giorni ho finito di rileggere (era stata una lontana lettura adolescenziale) La condizione umana di André Malraux. A riprendere in mano questo volume (edizione tascabile Gallimard) mi hanno spinto due circostanze susseguitesi nello spazio di pochi giorni. La prima è stata l’ennesima visione del bellissimo (a mio avviso) film di Bernardo Bertolucci L’ultimo imperatore. Mentre le immagini scorrevano, infatti, tenevo un occhio su Wikipedia per leggere alcune note sul film e una di queste mi ha colpito. Il regista aveva chiesto alle autorità cinesi il permesso di girare a Pechino un film. Aveva sottoposto alle autorità competenti due soggetti: uno originale (quello che poi divenne il film pluripremiato agli Oscar) e l’altro tratto appunto dalla Condizione umana. Le autorità cinesi optarono per la prima ipotesi scartando la seconda. E questo è stato il primo campanello di interesse. Perché continuava (nel 1986-87) a fare paura un libro come quello di Malraux? La seconda circostanza è stata un’intervista televisiva ad Andrea Camilleri. Il padre del commissario Montalbano, lo confesso, non rientra nel novero dei miei autori preferiti. Anzi. Però mi colpì il solito passaggio della domanda di rito che si fa a ogni scrittore di successo: quale libro l’ha folgorato al punto da diventare prima un lettore accanito e poi uno scrittore? La risposta di Camilleri è arrivata senza esitazioni e con grande passione. “Quando lessi da ragazzo La condizione umana ne rimasi folgorato”.

Del libro ricordavo poco (a parte un incipit davvero fulminante  che ancora è ben stampato nella mia memoria). Così ho deciso di riprenderlo in mano e le considerazioni di questa lettura le metterò giù nel prossimo post. Qui mi preme invece chiedermi quanti avranno fatto la stessa cosa sentendo Camilleri citare Malraux? Non credo molti. Soprattutto tra i giovani. Perché quello che col tempo è venuto meno in questi ultimi lustri di costante e inesorabile conquista del mondo dell’immagine e dell’informazione digitale è la curiosità e il rispetto per l’auctoritas. Da ragazzo bastava la mezza parola di un famoso scrittore o intellettuale, che consideravamo se non “maestro” almeno autorevole, per farci correre in libreria. I giornali si compravano per andare a leggere attentamente l’editoriale provocatorio, si correva a teatro per l’ultima opera d’avanguardia e il cinema era sempre argomento di dibattito. L’auctoritas fungeva da canalizzatore di esperienza mediata e veniva spontaneo quindi andare a vedere cosa c’era dietro quell’endorsement, quella sponsorizzazione. Oggi i ragazzi non sembrano attratti dal mondo della carta stampata. Se ti vedono con un libro in mano non ti interrogano sul contenuto e tanto meno sul suo autore. Inutile dire che basta frequentare i mezzi pubblici di trasporto per rendersi conto che libri e giornali sono spariti. Diventa sempre più difficile, ci raccontano gli insegnanti, abituare i ragazzi alla lettura. E il punto essenziale è proprio questo: il ragazzo non sente l’autorità di chi gli suggerisce di aprire un libro per scoprire incredibili piaceri e illuminazioni. Non avverte più una distanza fra sé e il “maestro”, almeno su questo piano. Quindi la lettura del suo “pari” gli è indifferente perché è uguale (ma più noiosa e complicata) di quella di qualsiasi altro suo coetaneo. Quindi meglio guardare altrove. Insomma la mia modesta proposta per educatori e insegnanti (e per tutti coloro che lavorano ne “campo” dell’editoria) è questa: ripristinare il valore di autorità, se riusciamo a mettere una distanza tra l’esempio del “maestro” e quella del giovane discente forse riusciamo a recuperare un gap che si fa giorno dopo giorno sempre più terrificante. Non possiamo abbandonare il campo agli youtuber e alle influencer altezzose e superficiali. I mezzi (e le intelligenze) in fondo ci sono.

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