Leggere sotto Natale Nemesi di Philip Roth è quasi un atto provocatorio. Ma ovviamente arrivo a questa considerazione soltanto dopo aver chiuso il libro (la mia edizione è quella dei Meridiani a cura di Paolo Simonetti, con la splendida traduzione di Norman Gobetti). Ero convinto di averlo già letto. Ma forse mi sbagliavo. L’idea di un racconto ambientato in una piccola cittadina del New Jersey nella famosa estate del ’44, quando l’epidemia di polio toglieva la guerra dai titoli di apertura dei giornali, non mi era nuova. Magari Roth ci è tornato più volte sopra, vai a sapere?

Però eravamo rimasti all’atto provocatorio. Perché? Qualcuno si chiederà. Perché il racconto è costruito tutto sulla fiducia che il protagonista ha non soltanto nel futuro, ma anche nelle sue proprie capacità di essere determinante affinché il futuro sia migliore del passato. Una fiducia però che viene frustrata a fine racconto. Un finale amaro che esalta il valore dell’Uomo (buono) proprio quando il destino si dimostra nei suoi confronti cinico e cieco. Il contrario di una favola natalizia (alla Dickens, per intenderci) dove il finale dimostra che la “falsa partenza” può essere corretta in corsa. E che il finale può regalare speranza anche al più spietato dei disillusi.

L’Uomo buono di cui sopra è Eugene Cantor, Bucky per gli amici. Un ragazzone tozzo e sportivo. Con l’unico difetto di avere occhiali con due fondi di bottiglia per lenti. Un handicap non da poco per chi si ritrova ventenne allo scoppio della Seconda Guerra mondiale e sente il bisogno di fare la sua parte. Quindi ripiega su un “servizio” sociale tutt’altro che trascurabile: da professore di educazione fisica si occupa dei ragazzini del quartiere ebraico di Weequahic. Li porta la campo. Li fa giocare a softball. Insegna loro a lanciare il giavellotto. E soprattutto a seguire tutta la profilassi necessaria per impedire il diffondere della polio.

Un angelo custode. Coraggioso ma attento a non far correre rischi ai ragazzini. Sente il lavoro come una missione. E quando il morbo della polio miete vittime anche tra i  “suoi” ragazzi, raddoppia sforzi e impegno per proteggerli. Insomma Eugene Cantor ricorda molto da vicino il catcher  nel campo di segale di salingeriana memoria.

In assenza di un vaccino (questo libro, tra l’altro, lo indicherei come obbligatorio per i no vax) la polio non fa sconti. E il lockdown è dietro l’angolo. Quella generazione, ricorderà più avanti il narratore, è stata la più sfortunata, soprattutto in quella afosa estate del ’44. Dieci anni più tardi la polio non rappresenterà più un incubo, ma allora, in piena guerra mondiale, con il caldo soffocante che attanagliava tutta la costa orientale degli Stati Uniti non c’era scampo. Anche in un lontano campeggio sulle Pocono Mountains. Dove Marcia, la fidanzata e collega di Bucky, lavora. E dove vuole che il suo futuro marito la raggiunga per evitare di esporsi al contagio.

Roth non ha fretta di giungere alla catarsi finale. Prima ci consente di abituarci a Eugene Cantor, alla sua probità, alla sua serietà e al suo successo tra coetanei e ragazzi più piccoli. Solo alla fine scopriamo qual è il suo vero obiettivo: non solo mostrare il rovello di chi non sa distinguere tra tragedia collettiva e senso di colpa individuale, ma anche di mostrare che non c’è gesto più autolesionista di quello cui si sottopone chi pensa che il destino sia il frutto di una scelta (ovviamente quasi sempre sbagliata, come sostiene la legge di Murphy) e non una trama dagli arabeschi imperscrutabili.

 

Tag: , , , , , , , , , , , ,