Rileggendo Il pendolo di Foucault di Umberto Eco (Bompiani) ho trovato una delle più efficaci descrizioni della vanity press. La prima volta che lessi il romanzo ero un laureando. Da allora non solo è passato molto tempo ma ho anche accumulato molte esperienze professionali (anche in case editrici, oltre che in riviste e giornali). Allora forse, quando lo lessi per la prima volta, le descrizioni della Garamond e della Manuzio (le due case editrici che solleticano la vanità di improbabili autori di provincia), certi dettagli, certe spiegazioni, certi affreschi e descrizioni non mi aevano colpito più di tanto perché – in fondo – era un mondo troppo esotico per consentirmi di apprezzare l’accuratezza del ritratto.

A tanti lustri di distanza, le cialtronesche politiche editoriali del signor Garamond sono illuminate da una luce affatto diversa. Che penetra non solo nel cuore del fenomeno ma lo spiega con vivida semplicità. Se scrivo queste righe non è, però, per complimentarmi con Eco (conoscitore come pochi dell’industria culturale del secondo Novecento) ma per sottolineare un fenomeno di questi nostri giorni difficili e molto, molto confusi.

Avete fatto caso che sui giornali e riviste più diffuse è scomparsa proprio la pubblicità di quelle case editrice a pagamento che solleticavano la vanità di aspiranti poeti e romanzieri? Una ventina di anni fa quelle pubblicità campeggiavano spesso nelle prime pagine dei quotidiani e promettevano (proprio come la Garamond raccontata da Eco) di tirar fuori dai cassetti quei capolavori che ancora (per timidezza) non erano riusciti a saltar fuori e a ricevere il giusto tributo di onori e gloria. Ora non è più così. Che il fenomeno si sia esaurito ne dubito fortemente. C’è ancora – e aggiungerei: purtroppo. Semmai la vanity press non è più quel canale privilegiato per titillare la vanità personale. Oggi a quella necessità rispondono molto più  efficacemente i social.

Fin dagli anni Sessanta assistiamo al lento ma costante sgretolamento del principio di autorità (nel senso latino di auctoritas). Col tempo abbiamo imparato a diffidare di chi parla da una cattedra (conquistata con merito). Preferiamo pescare dal mazzo della folla indistinta colui che risponde meglio – con i suoi vaneggiamenti – alle nostre perplessità. L’autorevolezza ha perso il suo fascino e non siamo più disposti a farci giudicare, a incassare dei no. Quindi il bar digitale, nel quale noi ci permettiamo di pontificare, risponde alla nostra necessità di sfogare il nostro narcisismo. Lo stesso Umberto Eco in una delle sue ultime lectio magistralis aveva detto che internet ha dato la parola agli imbecilli. Che prima, ricorda lo stesso semiologo, non è che stavano zitti. Al contrario. Quelle stupidaggini erano il pane quotidiano delle loro conversazioni al bar. “Solo che al bar si fa presto a zittire un imbecille”. Sui social è più difficile.

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