Sono entrato in quell’età in cui s gode di più nella lettura di libri di memorie che in quella di romanzi. Questi ultimi sono sempre la mia grande passione ma, una volta che nella grande libreria dei classici si è ridotta la quota dei non letti, trovare idee nuove e stimoli forti è sempre più difficile. I libri di memorie offrono, invero, sempre grandi soddisfazioni. Ovviamente devono uscire dalla penna di chi ha “vissuto”. Per attirare l’attenzione devono arrivare da chi si è distinto in qualche campo ed ha attraversato la Storia con passo appassionato e con curiosità per la vita e per il mondo. In molti casi hanno anche la chance di regalare ritratti di personaggi pubblici inediti. Personaggi che hanno avuto la possibilità di conoscere fuori dalle ribalte ufficiali e quindi di illuminare di una luce più efficace. Poi, ci si può divertire a ricostruire legami fatti di luoghi, nomi, date e situazioni che danno alla Storia quel gusto di “retroscena” tanto apprezzato dai lettori forti dei giornali di maggiore qualità.

Poco tempo fa mi è capitato di trovare sul banco di un mercatino dell’usato Lacerti di memoria (taccuini intermittenti) di Gillo Dorfles (Editrice Compositori). Per soli 40 centesimi di euro mi sono portato a casa le memorie di un “gigante” della cultura del Novecento. Uno dei personaggi più promettenti nella qualità di “autore di memorie”, dal momento che ha goduto di una lunghissima esistenza (è morto poco prima di compiere 108 anni) con il privilegio di nascere in un ambiente cosmopolita che gli ha consentito di viaggiare e conoscere persone le più diverse. In questi taccuini (recuperati con grande pazienza e con l’aiuto di un piccolo ma appassionato editore) Dorfles racconta praticamente come è diventato quel grande critico d’arte apprezzato in tutto il mondo. Col senno di poi sembra facile ma ogni vita va vissuta senza copione e i rischi di fallire sono sempre dietro l’angolo.

Dorfles lo dice fin dalle prime pagine: l’uomo deve coltivare la propria curiosità del mondo e degli uomini. Per paradosso è la chiave migliore per capire meglio noi stessi: “Credo che solo con la curiosità sia possibile avere un’immagine autentica di tutto ciò che il destino ci offre”. La sua curiosità lo ha fatto correre da un ambito all’altro con la baldanza propria del dilettante ma con l’intelligenza del grande artista. Suonava Bach ma ascoltava Dallapiccola e Nono. Dipingeva con estrema libertà ma seguiva con acribia l’arte concreta e l’espressionismo astratto. Era affascinato dall’architettura e dal design (che prima e più degli altri ha elevato al rango di linguaggio artistico).  Da giovane si dilettava anche di critica letteraria rubando tempo ai suoi studi di medicina (con una laurea presa “nonostante” la sua curiosità per la cultura più vivace e interessante che nel primo scorso del Novecento attraversava l’Europa e che Dorfles non si stancava di marcare stretta come un terzino d’altri tempi, letteralmente divorando tutto ciò che di nuovo pubblicavano le riviste militanti.

Impossibile (e inutile) fare qui per sommi capi una lista dei nomi e dei personaggi che attraversano le pagine di questo libro. Trattandosi di note prese in tempo reale e recuperate decenni dopo per la stesura di questo volume, fa impressione la lucidità e lungimiranza del testimone che consegna allori a personaggi che soltanto in seguito avrebbero attirato la luce della fama (doveroso citare almeno il nome di Mark Rothko) . Così come offre imperdibili note che definirei “antropologiche” su come gli usi e costumi possano cambiarci nel profondo. Ne cito soltanto un paio per dare il senso di quanto il lettore può trovare in queste pagine. Nel 1961, durante un soggiorno negli Stati Uniti, Dorfles affitta una macchina con il cambio automatico. Ecco il suo commento: “Il fatto di non avere bisogno della frizione dimostra ancora una volta come il perfezionamento meccanico porti alla perdita di tutta una serie di riflessi condizionati, che non possono più svilupparsi per mancanza di esercizio e quindi ricadono per sempre allo stato latente. Quella particolare sensibilità nell’innestare la marcia e abbandonare la frizione è diventata inutile, come avviene di molte altre operazioni analogiche”. Allora erano pochi, almeno da questa parte dell’Atlantico, i veicoli con ambio automatico. Ma oggi? Cosa siamo diventati con i nostri device e con le pervasive facilities  che hanno radicalmente mutato il nostro modo di vivere?  In un’altra pagina dei taccuini, datata ovviamente 1969, Dorfles affronta la rivolta studentesca e si pone domande oggi naturali ma allora affatto impensabili. “Si tratta solo di un gioco alla rivoluzione? – si chiede – Questa rivolta, tanto attesa, tanto invocata, tanto incompresa, si verificherà? E contro chi? Una nazione non borghese può ancora esistere entro una società consumistica? E si può auspicare una fine del consumismo, senza ridursi a una condizione di paleoartigianalità preindustriale, oggi impensabile?”  Poche parole che fanno strame di migliaia di scritti e volumi dedicati a incensare una “rivoluzione” implosa sul nascere.

Poi anche un grande come Dorfles ha i suoi vezzi e si possono trovare pure tra le righe di questo capolavoro di memorialistica “perle” di un uso corrivo del superlativo. Ecco un esempio: siamo in Portogallo all’inizio degli anni Settanta. Dorfles da viaggiatore intelligente e curioso non si limita ad ammirare i luoghi, i paesaggi e i tesori d’arte e di architettura. Vuole conoscere le persone e avvicinare i protagonisti della vita culturale.  Ed è così che incontra e accetta l’ospitalità di Salette Tavares, scrittrice e poetessa portoghese che  nei suoi taccuini Dorfles definisce “una delle migliori poetesse visive portoghesi”. Nulla da eccepire, in teoria. La Tavares, stando a quanto può riportare qualsiasi enciclopedia (Wikipedia compresa), lo è davvero una delle figure più importanti della poesia portoghese. Tuttavia, da come il “testimone” Dorfles la presenta, sembra che lo stesso abbia avuto modo di leggere e rileggere gran parte della produzione letteraria portoghese prima di affibbiare  alla Tavares quel “titolo”. Stessa cosa succede nella pagina successiva dove definisce Adelina Aletti “la nostra più raffinata traduttrice dal portoghese”.  E’ ovviamente possibile che lo sia (io la conosco soltanto come traduttrice di Clarice Lispector, ma non ho molta dimestichezza con la letteratura portoghese o brasiliana), tuttavia la sentenza sembra definitiva e maturata da una approfondito confronto con il lavoro dei colleghi della Aletti. A mio avviso è già difficile giudicare il singolo lavoro di un traduttore (per farlo non bisognerebbe limitarsi alla fluidità della traduzione bensì leggerla confrontandola con l’originale per accertarsi che la traduzione non sia il frutto di un efferato tradimento), impossibile mettere in fila quello di tanti traduttori per stilare una classifica. Piccolo vezzo e innocente vizio che non offuscano certo la fama dell’uomo e la luce di queste memorie e che il lettore segnala solo per poter dire che effettivamente un pelo nell’uovo c’è.

 

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