Siamo tutti d’accordo che i romanzi di formazione sono imprescindibili. Romanzi adatti a tutti. Indicati, ovviamente e soprattutto, per i giovani. Efficaci, però, anche per chi giovane non si sente più. Indicano, come sappiamo, un percorso di crescita. Raccontano la lenta ma inesorabile conquista della coscienza della realtà e del sé. Ci suggeriscono itinerari, ci disvelano segreti e soprattutto offrono esempi cui confrontarsi. Perché di questo soprattutto si ha bisogno quando si legge: conquistare il nome delle cose e dei sentimenti per poterli governare meglio per poterli sfruttare meglio.

Terminata la lettura de La luna e i falò, però, mi sono reso conto che esiste un altro genere di romanzo. Altrettanto imprescindibile. Però non per tutti. Imprescindibile per chi si sente di aver ormai superato e archiviato la stagione della formazione e della giovinezza. Per chi sa che ormai è più realistico fare bilanci che stendere progetti.

In questa categoria metto proprio l’ultimo romanzo di Cesare Pavese. E non è un caso che sia l’ultima opera dello scrittore torinese. Quasi il suo testamento.  Col senno di poi è naturalmente semplice leggerlo come tale. Il romanzo comunque parla di un uomo che torna nella sua terra d’origine dopo aver a lungo vissuto oltre oceano. E questo viaggio à rebours è molto più di un libro di memorie. E’ il libro di un viaggio nel passato per capire il presente e soprattutto per dare un senso al proprio percorso. Non è un caso che lo stesso autore abbia associato questo suo racconto alla Divina Commedia. Come nel capolavoro di Dante qui ci troviamo di fronte a un “autore” che viaggia accompagnato da una “guida”. Che lo illumina su cose, fatti e persone che hanno animato lo scenario della sua terra d’origine.

Anguilla, questo il soprannome che assegnarono da bambino al protagonsita/narratore, torna nelle sue Langhe  nell’immediato dopoguerra, dopo una lunga permanenza in California. Pavese ci propone una sorta di pellegrinaggio dove il nostro eroe viene scortato dall’amico d’infanzia Nuto, ora falegname disilluso ma un tempo scanzonato suonatore di clarino.  Uscito nel 1950 il romanzo è stato subito accolto con favore per quel suo proporsi come testimonianza del disagio intellettuale provato da chi si rende conto che le ragioni della Storia sono state più forti della civiltà contadina che dava sostanza a una cultura locale fatta di muta solidarietà e inesprimibile orgoglio.

Letto in età adulta, però, colpiscono anche altre cose che caratterizzano questo romanzo. Non soltanto le trasfigurazioni liriche della memoria contadina ma anche il rapporto che l’uomo maturo intrattiene con i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. Si evoca un modo di vivere ormai scomparso e quel legame quasi sensuale con la natura che faceva da guida ai ragazzini impazienti di crescere e di conquistare orizzonti sempre più lontani.

In poco meno di duecento pagine (dell’edizione tascabile Einaudi), però, Pavese riesce a mettere a fuoco molti temi e molto topoi con la certosina bravura di un cesellatore di miniature. Si parla di guerra, di lotta e di sopraffazione. Di cultura contadina e di tragedie familiari come quelle che riempiono i giornali di oggi (e che noi frettolosamente etichettiamo come femminicidi). Ci sono le delazioni e i tradimenti di chi negli anni dell’occupazione nazista non sapeva da che parte stare per poter sopravvivere.

E poi ci sono le ragioni del riscatto sociale degli umili che lottano contro la propria ignoranza senza rinunciare al soprannaturale là dove non si deve confondere con la superstizione. E non è un caso che a dar titolo a questo toccante memoir sia proprio la frase “la luna e i falò” che fa riferimento a una pratica contadina che si perde nella notte dei tempi e che insegna a rispettare i cicli lunari come metronomo del lavoro della terra.

Chi come me ha sfiorato soltanto da villeggiante la cultura contadina riesce a perdersi in queste pagine che trasfigurano una realtà tanto lontana quanto un paesaggio può farlo un esploratore all’interno di un ecosistema vergine. Si rimane conquistati dalla bellezza del paesaggio e ci si rende conto di quanto sia prezioso tenere con cura nei magazzini della memoria i ricordi più lontani.

E il viaggio di Anguilla termina proprio con la consapevolezza che quel percorso à rebours offre una visione nuova di un mondo antico mai dimenticato; e che le ragioni umane sono già presenti sotto le pietre dei sentieri che attraversano vigne e colline e scoprirle e riscoprirle  renderà più agevole anche la comprensione dei fenomeni sociali che affrontiamo “da adulti” nelle grandi città e sotto orizzonti più vasti. “Così questo paese – confessa Anguilla già nelle prime pagine dopo il suo ritorno nelle Langhe -, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto”.

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