E’ un lavoro da virtuosi: prendere un personaggio, il più letterario possibile, magari un accademico che passa il suo tempo a leggere i classici della letteratura francese e a discettare di cultura e letteratura sulle pagine di un prestigioso quotidiano, e a farlo irrimediabilmente scivolare in una spirale al fondo della quale non trova più la letteratura a salvarlo bensì la realtà molto concreta di una paternità mai desiderata ma non per questo meno meritata e meno onorata. E fare, comunque,  di questa caduta nell’abisso un trionfo letterario. Certo, non si salvano i luoghi comuni, né il pensiero woke e tantomeno il buonismo ipocrita dominante. Però si salvano i classici che, tutto sommato, coltivano le stesse ambizioni di tutti quei nervosi maschietti che nei reparti di ginecologia aspettano di diventare padri: creare la “vita”.

Alessandro Piperno con Aria di famiglia (Mondadori) sfrutta sé stesso, il suo milieu, la sua carriera per spingere alla sbarra degli imputati le storture di una cultura positiva che sta progressivamente portandoci verso un totalitarismo tutt’altro che illuminista. Il suo personaggio insegna Flaubert all’università, scrive romanzi di successo (sia commerciale che di critica) e pontifica dalle pagine di un grande quotidiano. E pare non aspiri ad altro. La vita gli va bene così, tanto è vero che non si è fatto una famiglia e a cinquant’anni (grazie anche a una cospicua eredità) vive nel lusso di una torre d’avorio in pieno centro storico a Roma.

Però che il mondo sia sull’orlo di una crisi epocale è di tutta evidenza se solo ci si fermasse a osservare bene chi ci sta intorno. Alessandro Sacerdoti, il protagonista di Aria di famiglia, per esempio, non si preoccupa più di tanto di osservare bene i suoi studenti e tantomeno allievi e giovani colleghi che gli gravitano intorno. Una sua citazione di Flaubert innesca un “processo” mediatico che lo porta in brevissimo tempo a dover subire la gogna social e anche l’allontanamento dalla cattedra. Di qui all’essere evitato come la peste anche da editori e giornalisti il passo è breve. E tutto questo grazie alla giovane Teresa Ghinassi che per fare le scarpe al suo ex maestro lo denuncia. “Teresa aveva capito – commenta il narratore/protagonista – che gli equilibri erano cambiati irreversibilmente e che quindi anche il contegno dei docenti andava aggiornato. Se un tempo per fare carriera dovevi concupire qualche vecchio libidinoso cattedratico, ora ti toccava sedurre gli studenti, stando ben attento a non concupirli. Erano loro i nuovi padroni del vapore, loro a determinare la fortuna di un corso di laurea, o a sancirne l’irrilevanza. Per questo andavano blanditi come clienti bizzosi”.

La sua torre d’avorio passa dall’essere una tana a un nascondiglio, fino ad assumere i contorni di una prigione. Per fortuna c’è la vita che ti tende una mano. Ti fa uscire all’aria fresca, ti fa sporcare col fango dei sentimenti. Per il Nostro quella mano tesa è una telefonata. E poi una doccia fredda: avrebbe dovuto prendersi cura di un ragazzino senza più famiglia (con un legame lontano di parentela). Da qui parte un secondo romanzo. Una seconda storia che della prima è l’esatto contrario. Non una caduta ma un’ascesa, una lenta ma progressiva conquista di una nuova consapevolezza.  Fino a quando negli occhi di quel ragazzino spaurito non riesce finalmente a trovare una risposta. “Per quanto mesti e spaventati, i tuoi occhi emanavano un bagliore allo stesso tempo remoto e domestico, venato com’era di ironia e di trasognata meraviglia. Era come se mia madre, zio Gianni, persino Francesca (la cugina che di punto in bianco, in piena adolescenza, mi aveva spezzato il cuore trasferendosi per sempre in Israele), si fossero dati appuntamento lì, nello sguardo che mi lanciasti. Uno sguardo titubante, è vero, ma pieno di curiosità e impertinenza. Neanche il più accurato test del DNA avrebbe potuto fornirmi una prova altrettanto irrefutabile che nelle tue vene scorrevano ettolitri di buon sangue Sacerdoti”. Non servono scaffali o intere biblioteche per imparare a riconoscere l’aria di famiglia. Serve intuito, compassione, ascolto e sangue nelle vene.

Il libro regala quindi due apologhi. Il primo toglie dai nostri occhi di lettori i tanti filtri di snobismo ideologico e culturale che stanno radicalizzando la nostra vita sociale. Il secondo invece ci dimostra come si può recuperare umanità anche semplicemente andando allo stadio a vedere una partita della Roma o strafogandosi con un hamburger in panineria. D’altronde, ripete a sé stesso Sacerdoti, “il solo modo per tenere a bada la morte è ubriacarsi di vita”.

ps

per fortuna a scrivere questo bel romanzo è un autore che sa maneggiare con cura i classici e sa guardare le cose con la giusta prospettiva. E lo dimostra un passaggio dove il protagonista racconta di come si è liberato degli inutili fardelli che prendevano polvere nella sua biblioteca di casa, una volta che il mondo accademico era diventato il suo passato.  Mi fa piacere citare qui il passo perché rende un indiretto omaggio al senso stesso di questo blog. “Non c’era parete del soggiorno in cui mi trovavo che non fosse stipata di libri di inequivocabile bellezza. Invecchiando, diventando più esigente, avevo liberato gli scaffali da intrusi e impostori, a cominciare dai romanzi dei miei amici per finire coi miei. L’ultima purga, la più elettrizzante, risaliva a un paio di anni prima. Presa la decisione di lasciare l’università, mi ero sbarazzato di tutte le monografie dei miei ex colleghi: un ripulisti che mi aveva riempito i polmoni di aria pulita, e il cuore di voluttà. Tutto pur di rendere l’incombente biblioteca domestica un tempio consacrato ai giganti: da Omero, passando per Sofocle, Machiavelli, Montaigne, Shakespeare, giù giù fino a Bret Easton Ellis”.

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