Quei padri di tutti che avrebbero salvato il mondo dall’impazzimento, se solo non avessimo scelto di suicidarci
Una traduzione in arte che non chiede permessi. Non una triste ricorrenza obbligata a porte semi chiuse, con sedici persone, dedicata ad Heidegger, essenziale a cogliere il nichilismo, in cui però, il gelataio di Vigevano, incuriosito, presente lì per caso, non arriva neanche lontanamente a concepire di cosa stiamo parlando, nel loop di una vuota masturbazione rituale.
Una traduzione in arte: dalla mostra, al libro. Da un linguaggio, all’altro. Necessaria e testarda stimolazione sensoriale nell’epoca della secchezza dell’anima. Ci vuole coraggio per infilarsi nell’assenza del senso, come mettere le mani tra due cani che si sbranano; ce ne vuole per proporre una esposizione, e poi una pubblicazione, sui grandi del Novecento che non è frutto marcio di una compravendita politica; ce ne vuole davvero molto per farlo nei mesi della guerra (in)civile tra italiani, parto di frammentazione e di idola fori, che non lascerà nulla, se non ulteriore polvere fine di questo popolo di cittadini de iure e sudditi de facto, perché incapace di combattere per evolvere, nel senso proprio di quella douleia che anima il servizio verso un qualcosa di più grande, e che mai, per sua natura, esprimerà umiliazione. Tentare di riempire un vuoto è già, di per sé, un atto di coraggio, specie in un certo mondo di idee che spesso pretende di contrastare l’egemonia culturale imperante – che tramite i suoi ispiratori, tenta di estinguere tutto ciò che si pone come alternativo all’imposto -, con l’autorefenzialità, con il senso di inferiorità, con la nicchia arredata a gran teatro di una guerra tra poveri, figli di una percentuale e di un sondaggio, cercando la dimostrazione di conoscenza statica, e ritenendo inutile, a scapito della continua celebrazione erotica della geopolitica e dell’economia, la pratica dell’arte, della musica, della poesia, raramente del teatro, come fonte di maturazione umana e civile.
Avere davanti, dunque, una raccolta ordinata e indipendente come “Profeti inascoltati del Novecento” (2022, Italia Storica Edizioni, 29 euro), che mi onoro di aver accompagnato nella genesi, è una gioia per le anime ancora vive, specie in tempi in cui la rabbia e a l’agire politico e sociale non hanno più un fine culturale – cioè devoto alla coltivazione di un pensiero critico – ma sono regredite allo stadio del peggior primitivismo, all’emozione pubblica che ha sostituito l’opinione pubblica e la ragione, all’istinto animalesco della sopravvivenza, allo stato di agitazione emotiva permanente. Profeti di una parola disattesa, al servizio dell’Alto e dell’altro che non sia uomo folla, colui che vive per replicare, per garantire la propria gratificazione istantanea, mondato da ogni dimensione di profondità, che “si sente come tutto il mondo”, capace di avere “soltanto appetiti, crede di avere solo dei diritti e non crede di avere obblighi”, ci direbbe Ortega y Gasset, che non sia l’individuo digerente céliniano (“Gli uomini si occupano di questioni volgarmente alimentari o aperitive; bevono, fumano, mangiano, sono usciti dalla vita, totalmente assorbiti da funzioni bassamente digestive. Abbiamo a che fare con dei mostri. Basta qualche chiacchiera, qualche farfugliamento, grandi vanità, una decorazione, accademie: eccoli soddisfatti”). E proprio Ortega y Gasset e Ottone Rosai – di cui il sottoscritto ha curato i due apparati critici, tra le pagine – Céline, assieme a Jünger e Conrad, Pound a Borges , Flaiano e Cristina Campo, Bernanos e Camus, Solženicyn, Hannah Arendt e Ingmar Bergman, Mauriac e Pasolini, Pessoa e Poe, Weil e Pasternak, Prezzolini e Limonov, tra i tanti – così distanti e così vicini – disegnati da Dionisio di Francescantonio, compongono prima una mostra preziosa, realizzata con il patrocinio del Comune di Genova e della Regione Liguria, organizzata dalla Domus Cultura di Genova, da un’idea di Andrea Lombardi, che ha curato anche il progetto editoriale, Miriam Pastorino e Dionisio di Francescantonio, e poi un libro, con la prestigiosa prefazione di Vittorio Sgarbi, da qualche settimana in libreria, che è un atlante della vita contro la morte cerebrale. 66 disegni, in un figurativo fortemente espressivo, capace di mostrare l’anima degli inascoltati dagli occhi e dalla rughe, senza scadere in una cronaca sciatta, che ricordano il Paganini bronzeo di Livio Scarpella del teatro Carlo Felice, con relative schede critiche di apprezzati pensatori, da Pietrangelo Buttafuoco a Gianfranco de Turris, da Luigi Iannone a Stenio Solinas, fino a Davide Brullo e Alessandro Gnocchi. “L’arte pretende quella libertà di espressione che personaggi scomodi hanno coraggiosamente e diversamente testimoniato, anche divisi dalle violentissime vicende storiche del Novecento. Il possibile punto d’incontro è la verità delle parole che consente di superare gli schemi ideologici, propri di un tempo che è finito, mentre la loro vita è qui”, racconta Sgarbi nella prefazione. Cullarsi nel bisogno della prosecuzione mentre tutto intorno – dal Governo, alla dignità dei lavoratori – muore male. Vincerà questa guerra contro l’autoannullamento degli uomini solo chi saprà rimanere lucido.