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Il bosco di aceri abbraccia le vetrate e si riflette nell’acqua calda e cheta della vasca termale. Anche l’aria sembra virare al verde. Nessun rumore. Accuratamente lavata, come vuole la tradizione, mi abbandono a questo calore che sa di abbraccio terreno. I pensieri si fanno leggeri e l’attenzione si concentra sul verde assoluto del bosco fino a diventare contemplazione. Complice il silenzio che le Onsen, le terme, richiedono, lontane anni luce dagli idromassaggi occidentali. The Kayotei è un hotel ryokan, in stile tradizionale giapponese, a Yamanaka Onsen, vicino alla città di Kanazawa (circa 3 ore da Tokyo in Shinkansen, l’alta velocità nipponica) nella prefettura di Ishikawa. 10 camere e le Onsen, aperte 24 ore al giorno. Con indosso lo yukata, il chimono in cotone che i ryokan hotel mettono sempre a disposizione, ai piedi i geta, i sandali in legno e un garbato ma intenso calore sulla pelle, ritorno in camera, un microcosmo di ordine perfetto: a terra, la geometria del tatami e alle pareti la sottile protezione della carta di riso. La cena in kaseky-style, molte pietanze in piccole porzioni con un’attenzione particolare all’estetica dei piatti e alla composizione a tavola, innaffiata di saké locale, è un viaggio sensoriale nella raffinatezza del Giappone, orchestrata dalla bravura dello chef Yutaka Ebihara.

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La località, immersa nel verde dei boschi, è uno scrigno di tesori. Qui un gruppo di artigiani-artisti, riuniti con il nome di “Artisans for the Future” proprio dal Kayotei Hotel che ne promuove l’attività, producono oggetti e alimenti secondo metodi antichissimi. Imparo (per lo meno tento) a fare la soba, spaghetti di grano saraceno, nella cucina di Dankura; scopro le fasi di lavorazione dei raffinatissimi oggetti in legno ricoperto di lacca ricavata dalla resina dell’Urushi e di essenze rarissime come il legno di caco nero, il “black diamond”, da Kobo Senju, un vero tempio del legno, dove opera Satake san, 36 anni che con queste parole svela il segreto della sua arte: “Quando riesco a estrarre la bellezza dell’albero dal suo legno, mi sento felice”. Altro viaggio nel tempo: la finissima porcellana Kutani-yaki, la carta tradizionale, e poi il riso biologico, la salsa di soya, il sakè, i Wagashi, dolci tradizionali: entrando in questi laboratori oltrepasso la cortina del tempo.

Kanazawa , la città dei samurai famosa per la produzione delle sottilissime foglie d’oro, ha un cuore antico e glorioso. Comandata dal clan Maeda dal XVI secolo, fu rivale di Osaka e Kyoto. Mi perdo nell’armonia dei giardini Kenroku-en, tra laghetti, carpe, muschio e aceri; visito il museo di arte e artigianato e il vicino castello ricostruito secondo la tecnica del legno a incastro e con le tegole in piombo smaltate in bianco che racconta l’epoca d’oro dei Maeda. Emozionante il Quartiere dei Samurai con la residenza originale della famiglia Takada e uno dei giardini più belli del Giappone, entrambi di 400 anni, dove il muschio e la ruggine raccontano l’armonia dello scorrere del tempo. E dove il tempo si dilata.

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Nel quartiere Higashi chaya sopravvive il “mondo fluttuante” delle geishe, con i chaya, le case da tè, dove ancora le geiko, come vengono chiamate qui, si esibiscono in canti, danze e suonano lo shamisen, tipico strumento a tre corde, per i loro facoltosissimi clienti. Un percorso di formazione il loro lungo e costosissimo che salvaguardia immutato l’antico ideale di bellezza e di femminilità, ma che sempre meno ragazze possono permettersi di intraprendere. E’ un mini museo la casa da tè Shima, uno scampolo di quel “mondo dei fiori e dei salici” che ancora il Giappone alle sue tradizioni.

Seguendo questo fil rouge mi inoltro nel Gyokusen-en Garden, giardino progettato nel Seicento all’inizio dell’epoca Edo, autentico “distillato” di armonia, fino alla casa del tè Saisetsu-tei. La proprietaria, la signora Nishida, presiede la cerimonia del tè, e mi spiega ogni passaggio del rituale: dalla purificazione delle labbra alla degustazione del matcha (polvere di tè verde coltivato all’ombra e cotto al vapore), il linguaggio gestuale, molto codificato, e quello verbale.

Passato e prossimo futuro in Giappone sono dimensioni contigue che non prevedono passaggi intermedi. Così il salto nella modernità è immediato nel Museo d’Arte Contemporanea del 21° secolo, realizzato dal celebre duo SANAA (Selima Kazuyo e Nishikawa Ryue): spazi luminosi, minimalisti e trasparenti, dove espongono in modo permanente artisti contemporanei del calibro di Leandro Erlich la cui “Piscina” è divenuta l’icona del museo. E’ invece un’architettura da “meditazione” il museo dedicato a Daisetsu Teitaro Suzuki, tra i più grandi filosofi del buddismo. La firma è di Yoshio Taniguchi, l’architetto che ha ridisegnato il MoMa di New York.

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Una visita tra i luccicanti crostacei del Mercato Omicho e parto per Takayama, città circondata dalla corona delle alpi giapponesi, famosa per gli abilissimi carpentieri, tanto che venivano utilizzati a Tokyo e a Kyoto per pagare le tasse invece del riso. Ma Takayama è celebre anche per i suoi carri cerimoniali chiamati Yatai, protagonisti di due coloratissimi festival: il Sanno Matsuri in onore della primavera il 14 e 15 di aprile, e quello di Hachiman che festeggia l’autunno il 9 e il 10 ottobre.

Visito la grande Jinya, il palazzo del Governatore con l’adiacente magazzino di riso che era tra i più grandi del Giappone; l’antico quartiere di Sanmachi-suji con le sue antiche case di legno e le rivendite di sakè. E imparo alcuni segreti della cucina giapponese (come il Dashi, brodo di pesce e alghe) al Green Cooking Studio, atelier laboratorio che utilizza solo prodotti locali. Alle 23 il suono del gong in strada, che ogni notte ricorda a tutti di spegnere il fuoco per evitare incendi, risuona come un’eco del passato. L’indomani è il verde luccicante delle alpi giapponesi a essere protagonista nei villaggi tradizionali di Hida e di Ainokura, patrimonio Unesco, con le case gassho-zukuri (letteralmente “a forma di mani che pregano”) dal tetto in paglia molto spiovente, dove si coltivavano bachi da seta, mentre al primo piano si produceva nitrato di potassio.

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Le Alpi chiamano e salgo a bordo del Kurobe Gorge Train, realizzato dal ‘23 al ‘37 per trasportare gli operai che costruirono tre grandi dighe, e che conduce nel cuore di strette valli lungo pendii scoscesi e laghi, tra Unazuki e Kanetsuri. Qui è facile dimenticarsi completamente di essere in un arcipelago.

 

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 La penisola di Noto

 

Abbandono le Alpi. E’ giunta l’ora di dirigermi verso il Mar del Giappone nella Penisola di Noto, l’unico posto in Giappone dove si può contemplare sia l’alba sia il tramonto sul mare, un tempo area remota e oggi famosa per la produzione ittica e l’artigianato di oggetti e mobili in legno laccato, ma che ha mantenuto per via dell’isolamento paesaggi agricoli tradizionali.

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Nel nord a Wajima City, nella prefettura di Ishikawa, il Kiriko Lantern Museum custodisce lanterne alte dai 4 ai 15 metri, costruite senza chiodi, utilizzate nei numerosissimi festival estivi da luglio a settembre. Sono ricorrenze legate ai templi shintoisti e alla raccolta di riso in circa 200 località: un autentico spettacolo di luce e colori. Altissime quelle di 15 m, che richiedono anche 150 persone per esser trasportate, decorate con foglie d’oro e scintillanti grazie alla pregiata lacca di Wajima, realizzata con resina di Ushuri e sabbia marina in 124 fasi di lavorazione da artigiani abilissimi. Per farmene un’idea visito l’esaustivo Ishikawa Wajima Urushi Art Museum. Non posso perdermi il migliore sahimi della città da Sumo in via Chuodori, 3, ristorante a gestione familiare frequentato dai migliori lottatori di sumo del Giappone.

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Lungo la strada costiera scorrono boschi di cedri, bambù e risaie che lambiscono scure e alte scogliere. Oltre, si estende il Mar del Giappone: una immensa distesa color cobalto che si infrange contro la roccia con improvvisi giochi di spuma, come alle Tarumi Falls: un salto di 357 m che crea i “nami on a”, letteralmente i “fiori delle onde”, un particolare effetto di vapori, dovuto alla frammentazione del plancton. Lungo la costa di Okunoto le terrazze sono coltivate a riso e molto suggestiva è Mitsukejima Island, un’isola dalla forma bizzarra che ricorda un grande fungo.

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Il passato era lì ad aspettarmi: soggiorno presso Shunran no sato, un gruppo di contadini (circa 30) che ospitano nelle loro case tradizionali. Oltre alla possibilità di partecipare a lavori agricoli (la Penisola è patrimonio agricolo mondiale) queste case (dove spesso la comunicazione avviene a gesti, a meno che non sappiate il giapponese) sono come piccoli musei anni ’50, con arredo tradizionale vintage, televisori e radio da amatori collezionisti, il braciere acceso la notte, l’altare shintoista domestico che occupa una stanza intera, la cucina più tradizionale, il bagno quasi esterno, la vasca da bagno riempita per voi dalla signora di casa. Non manca lo yukata da indossare per stare comodi. E la gentilezza che vi riservono è davvero straordinaria.

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I Giapponesi frequentano senza problemi sia i templi shintoisti sia quelli buddisti e, sempre più spesso, si sposano in abito bianco con formule che ricalcano quelle occidentali. Una “disinvoltura” religiosa assolutamente invidiabile. Non voglio perdermi il tempio shintoista di Suzu Jinja costruito per neutralizzare “un punto di iettatura” (ovvero un punto di ingresso di energia negativa), a Suzu. Il tempio custodisce quattro Kiriko, lanterne cerimoniali altissime, tra le quali la più grande del Giappone (16 m). Sono portate in processione il secondo sabato di settembre durante tutta la notte lungo trenta tappe che toccano i quattro villaggi di Sozu. Attorno si estendono 30.000 mq di parco con 250 tipi di alberi. Da non perdere anche il tempio buddista soto zen di Soji-ji Soin in località Anamizu, un importante centro internazionale per la pratica zen. Guidata dai monaci sperimento, non senza qualche patema, la severa meditazione zazen: in caso di distrazione, un monaco usa una bacchetta di bambù per riportare il soggetto che medita al “qui e ora”.

L’ultimo sguardo alla penisola di Noto lo voglio dare dal mare ad Hakui sul Boat Noto Kongo, piccolo battello turistico: 20 minuti tra acqua e cielo per ammirare le scure scogliere della costa.

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E’ tempo di ritornare. L’ultima visita è tutta dedicata alla soya e ai suoi derivati da Yamato Soysauce & Miso, un autentico villaggio industriale dedicato ai derivati della soya, alla crema di miso e al koji, il cuore della fermentazione. Immergo le mani nel koji e le tolgo vellutate.

Parto con il desiderio di ritornare presto e con molti interrogativi; mi aspetteranno molte serate di lettura. Il Giappone è così: un incontro fatale che non ti abbandona.

 

Elena Pizzetti

@ElenaEpizzet

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