Nella torre d’avorio con lo smartphone
Gli scrittori hanno iniziato a capire l’importanza dei social network. Mentre tramonta progressivamente e inesorabilmente la centralità dei giornali e delle riviste su carta, il web offre una ribalta adeguata al bisogno di comunicazione e di “presenzialismo” di gran parte dei nostri autori (soprattutto dei giovani e meno conosciuti).
Quindi se si vuole capire quali sono i sentimenti comuni che affratellano i componenti di questa categoria è bene farsi un giro dalle parti di Twitter e di Facebook. Qui si può sorridere del narcisismo di molti scrittori, e soprattutto si può constatare la loro necessità di essere “sempre sul pezzo”. Di dire e concionare. Di qualsiasi argomento. L’importante è essere ben visibili agli occhi dei potenziali lettori, o almeno di quelli che si tenta proprio in questo modo di fidelizzare.
C’è però un argomento cui nessun autore (specialmente se giovane e alle prime prove) sa resistere. Ed è proprio quello della salute della letteratura e del destino del romanzo. Su questo tema si possono leggere tesi apparentemente fondate sul più sano buon senso. Ma solo apparentemente. Se infatti la giovane scrittrice (con all’attivo un solo titolo), che vivacchia con traduzioni e brevi articoli per giornali e riviste, si lamenta che da noi tutti vogliono pubblicare, subito le risponde un collega altrettanto giovane e sprovveduto che rincara la dose. “Così non va – commenta altezzoso – ci vorrebbe un filtro più potente. Tutti che vogliono diventare scrittori. Così non va bene”. E poi giù pagine e pagine, post e post, per dire che no, così proprio non va: gli scrittori sono mal pagati, e così pure i traduttori. Andando di questo passo – commentano in molti – l’editoria finirà per consumarsi e ridursi a un proditorio self-publishing che già sta spaventando i loro colleghi d’oltreoceano, da quando Amazon è entrata prepotentemente nel settore.
Questa cosa di calmierare il settore, di filtrare, di rendere tutto meno accessibile e più selettivo, cozza proprio con il principio meritocratico. Non ci dovrebbe essere altra regola che il merito e proprio per assecondare questa unica norma non ci dovrebbero essere altre norme o paletti.
Insomma, se uno vuole scrivere che scriva. Se vuole pubblicare a proprie spese le proprie fatiche letterarie che lo faccia. Dov’è il problema? L’importante è che gli editori tradizionali continuino a fare bene il loro dovere e a proporre ai lettori titoli doc (proprio nel senso che l’origine di questi testi deve essere accuratamente controllata).
Il problema non è quello di contenere l’irrefrenabile voglia di scrittura che prende molti (forse anche tanti), ma di evitare che la debole inclinazione alla lettura dei pochi non venga frustrata con prodotti sciatti e noiosi. Anche perché di autori noiosi (e con una lingua monocroma, dalla vivacità di un bradipo anestetizzato) ce ne sono molti in quelle torri eburnee in cui amano rinchiudersi da quando hanno scoperto che comunque lassù i cellulari prendono e i loro smartphone e tablet lì funzionano benissimo.