Cinquant’anni dopo Bianciardi, è ancora vita molto agra
“La chiamano nebbia, se la coccolano, te la mostrano, se ne gloriano come di un prodotto locale. E prodotto locale è. Solo non è nebbia […] E’ semmai una fumigazione rabbiosa, una flatulenza di uomini, di motori, di camini, è sudore, è puzzo di piedi, polverone sollevato dal taccheggiare delle segretarie, delle puttane, dei rappresentanti, dei grafici, dei PRM, delle stenodattilo, è fiato di denti guasti, di stomachi ulcerati, di budella intasate, di sfinteri stitici, è fetore di ascelle deodorate, di sorche sfitte, di bischeri disoccupati”.
E’ una delle più vivaci descrizioni della città di Milano nel momento del suo maggior splendore. Quando la città (primi anni Sessanta) cresceva con ottimismo ed entusiasmo. Quando l’economia tirava e quando anche la cultura sapeva concedersi momenti di vivacità e passione.
A firmare queste parole è Luciano Bianciardi, nel suo romanzo più famoso: La vita agra. Un romanzo che ha subito avuto un enorme successo di pubblico quando uscì nel 1962, come primo titolo della neonata collana di narrativa “La scala” di Rizzoli.
A poco più di cinquant’anni il romanzo è ancora presente nelle nostre librerie. E fa parte a buon diritto di quella categoria di libri che questo blog cerca di difendere e di esaltare: i titoli di catalogo. In questi giorni, però, è entrato anche nel novero dei “classici” e questo per merito della figlia dello scrittore morto nel 1971. Luciana Bianciardi ha deciso di pubblicare con la sua casa editrice ExCogita una nuova versione del celebre romanzo. Come per ogni classico che si ripsetti, infatti, questa edizione è arricchita da un apparato di note a pie’ di pagina che aiutano il lettore di oggi a farsi strada in mezzo alla rete di rimandi e di nomi che fotografano alla perfezione l’atmosfera di quei luoghi e di quell’epoca.
Se molto (anzi moltissimo) è cambiato a Milano e nel resto d’Italia (nessuno, per dire, si sognerebbe di andare a cercare nella Milano di oggi i campi dove si gioca la pelota), molte delle cose che oggi caratterizzano l’involuzione della nostra società consumistica erano già lucidamente viste e commentate da Bianciardi. Prima di altri. E con una verve antisistema e con una lingua destabilizzante che non hanno pari, se non si scomodano persone del calibro di Pietro Aretino, Teofilo Folengo, Carlo Dossi e ovviamente l’ingegner Gadda.
Forse è meglio entrare un momento dentro il libro e raccontarlo. Hai visto mai che qualche giovane resti incuriosito e corra in libreria dove oltre a questa edizione può trovare l’antimeridiano Opere complete pubblicato da Isbn e l’edizione tascabile Feltrinelli. Il protagonista è un provinciale che approda nella capitale industriale d’Italia. E’ un intellettuale che a casa ha lasciato moglie e figlio per tentare l’avventura della giovanissima ma già invasiva industria culturale. Con uno sguardo non corrotto analizza la capitale del boom economico, la vita di città, le alienazioni che appassiscono anche le passioni intellettuali più vigorose. Il tutto con una forza e un’intelligenza fuori dal comune. La vita agra è ahinoi di stretta attualità, come ha scritto di recente Gian Paolo Serino perché mette al centro della scena il “precariato non solo esistenziale della maggior parte dei lavoratori”. Serino poi ricorda l’onestà intellettuale di Bianciardi. Cosa davvero rara, e non solo a quei tempi. Indro Montanelli, un altro toscanaccio schietto e intelligente come l’autore della Vita agra, lo aveva scoperto per primo. E sulla scia del successo del romanzo gli offrì un “posto sicuro” a via Solferino. Posto che Bianciardi rifiutò per coerenza ideologica, accontentandosi poi – per sbarcare il lunario – di scrivere romanzi pornografici sotto falso nome, di tradurre fino ad uccidersi e di firmare rubriche prezzolate per giornali come Playboy, poco affini all’orizzonte dell’intellighentia del tempo.
In fin dei conti, Bianciardi, aveva perso la sua battaglia principale. Che non era affatto ideologica. Come ogni intellettuale che tenti di onorare la sua funzione, il Nostro cercava l’Uomo. E come scrittore voleva saggiare la sua e l’altrui umanità. Purtroppo le sue ricerche sono risultate inconcludenti. L’Uomo non l’ha trovato ma nei suoi libri si può ancor oggi respirare un’umanità davvero commovente. “Ogni giorno io trascorro in tram almeno un’ora e mezzo. Bene, chi non sa può forse credere che, viaggiando su quel mezzo pubblico quarantacinque ore ogni mese, in capo all’anno uno debba avere fatto centinaia di conoscenze, decine di amicizie. Per esempio, quelli che per ragioni di lavoro prendono ogni giorno l’accelerato fra Follonica e il paese mio, li vedrete salutare dal finestrino casellanti e capistazione, preoccuparsi se a Giuncarico non sale, come ogni mattina, il Marraccini, e poi domandare perché e come sta ai conoscenti. Il conduttore nemmeno chiede più il biglietto, caso mai si ferma un momento, ti si siede accanto, accetta una sigaretta, s’informa se andrai anche tu a ballare a Braccagni, il sabato […] Qui no. Ogni mattina la gita in tram è un viaggio in compagnia di estranei che non si parlano, anzi di nemici che si odiano”.