Cummings, Kafka e la Grande Guerra
Non troverete tra le pagine di La stanza enorme nemmeno uno sparo. Non ammirerete nemmeno una compassionevole descrizione della vita di trincea. Tra le pagine del romanzo di Edward Estlin Cummings (1894-1962), che ora Baldini & Castoldi riporta in libreria, non vi soffermerete su alcuna battaglia o epico episodio di coraggio. Insomma del dramma della Prima Guerra mondiale non si trova in questo titolo alcun di quei topoi tanto cari alla memorialistica di genere. Eppure, basta sfogliare un’enciclopedia, un compendio di storia della letteratura americana, o un buon saggio sulla letteratura di guerra per venire a sapere che proprio questo romanzo, uscito per la prima volta nel1922 a New York, è uno dei testi letterari di cui proprio non si può fare a meno per capire al meglio cos’è stata la Grande Guerra. Il perché ve lo spieghiamo dopo intanto ricordiamo chi è l’autore.
Cummings come la maggior parte dei suoi colleghi americani, non è il tipo che si arrovella per inventare arabeschi letterari. Come i suoi conterranei, ha bisogno di calarsi realmente dentro una situazione per poterla descrivere. E probabilmente fin dal lontano 1916, quando ormai stava per laurearsi nel prestigioso ateneo di Harvard, pensava a una futura carriera letteraria. A una nobile attività, insomma, che concedesse a lui il privilegio di sondare il labirinto caotico che siamo soliti chiamare umanità. Cosa di meglio di una guerra, con tutte le sue sofferenze e privazioni? Si sarà detto. Magari senza prendere un fucile in mano. Insomma senza colpo ferire. E la risposta arriva facile alla sua mente, come a quella di tanti altri protagonisti di quella che fu poi definita da Gertrude Stein la lost generation, vale a dire il gruppo di scrittori, artisti e intellettuali cresciuto molto in fretta proprio perché testimone dei laceranti drammi imposti dalla guerra. Proprio come Hemingway e Dos Passos, il giovane Cummings sceglie di arrivare al fronte con il ruolo di barelliere. Un’idea, dicevamo, molto popolare all’epoca.
Cummings viveva in uno degli ambienti più snob del Paese. Non solo aveva studiato a Harvard, come da tradizione familiare, ma il padre Edward, professore di Scienze sociali nel suo stesso ateneo, e la madre Rebecca Haswell Clarke provenivano da due delle famiglie più influenti e ricche del New England. Proprio il padre, con il quale il futuro scrittore aveva un rapporto molto stretto, spinse il figlio alla carriera artistica. Non solo. Lo aiutò anche a tirarsi fuori dai guai quando, per ingenuità e per inesperienza, quest’ultimo incappò nel miope ma rigido sistema giudiziario francese. Appena sbarcato a Parigi, infatti, il giovane Cummings aveva stretto amicizia con William Slater Brown, altro rampollo americano con ambizioni artistiche, che aveva avuto l’impudenza di scrivere una lettera “pacifista” a un membro del Congresso. Ai francesi la cosa non piacque affatto. Anche se i due lavoravano come barellieri in un’organizzazione composta per metà da francesi, furono presto spediti in un campo di prigionia non lontano da Marsiglia.
Ed è proprio quella esperienza che solo pochi anni dopo lo scrittore sublimerà nel suo primo e ineguagliato romanzo. La stanza enorme uscì per la prima volta in Italia solo nel 1978 con la traduzione di Alfredo Rizzardi. In America invece è un long seller da sempre. Il suo eclettismo, paradossalmente, trova la sintesi perfetta proprio nel romanzo d’esordio. La stanza enorme ricorda Il castello di Franz Kafka, anche, se all’epoca in cui scrisse, Cummings conosceva dell’autore praghese solo le prime prove narrative. Il romanzo rievoca, infatti, la sua drammatica esperienza raccontando la vita nel campo di prigionia di la Ferté Macé, dove rimase per pochi mesi prima dell’intervento del padre che, grazie alle sue aderenze a Washington e grazie alla benevola amicizia di Cornelius Vanderbilt III, che alle ingenti fortune della sua famiglia preferì una ben più scomoda carriera militare, è riuscito a far liberare il figlio, accusato di tradimento. Accusa peraltro infondata. L’assurdità della sua imputazione viene scelta come grande metafora del romanzo che punta su tinte surreali e tragicomiche. In uno stile, inoltre, molto raffinato dove si mescolano i linguaggi alti e quelli popolari, dove l’inglese coabita con espressioni prese in prestito dai compagni di sventura di Cummings che provenivano da mezza Europa.
Alla fine il libro centra il suo bersaglio. A centinaia di chilometri di distanza dal fronte, infatti, la Ferté Macé, descritta da Cummings con mano espressionista, rappresenta il lato oscuro della guerra. Anche un apparentemente “pacifico” campo di prigionia riesce nell’opera di “decomposizione delle coscienze”, come ebbe a scrivere Antonio Debenedetti a proposito di questo capolavoro ritrovato.