Letta l’ultima pagina (la 1425 dell’edizione dei tascabili Einaudi*) di Guerra e pace di Lev Tolstoj, la prima cosa che mi viene in mente è l’editing. Chissà chi è stato il suo primo editore? Chi ha avuto in cura le bozze della prima versione a stampa? Domande cui non cerco nemmeno di dare risposte. Non mi va con questo clima torrido di mezza estate di andare a spulciare in biblioteca tomi e tomi per conoscere meglio la fortuna editoriale di questo capolavoro della letteratura di ogni tempo. Resta un dubbio. Uscirebbe come l’ho letto io oggi questo romanzone da 1425 pagine? Non ne sono sicuro.

Innanzitutto c’è la questione del francese. Si sa bene che Tolstoj era un autentico poliglotta. Ne parlava correntemente una decina e soprattutto il francese lo conosceva bene. Esattamente come lo conoscevano tutti gli appartenenti all’upper class europea (senza distinzioni di bandiera o nazionalità). Era ovviamente la lingua comune, il vero trait d’union della civiltà europea del primo Ottocento. E visto che il suo romanzo mette al centro della scena alcune famiglie della nobiltà moscovita e russa in generale, accanto agli ufficiali dell’esercito imperiale francese  e ai rappresentanti della diplomazia internazionale, va da sé che la lingua in cui i suoi personaggi si esprimono sia quella di Voltaire. Difficile, però, accettare il fatto che si possa passare con tanta disinvoltura dal francese al russo (ovviamente nel mio caso l’italiano). In molte scene i personaggi recitano poche frasi in francese, e spesso nemmeno altamente connotate dal punto di vista lessicale. Niente jeux des mots, niente motti di spirito o espressioni gergali. Che avrebbero ovviamente giustificato la “citazione in lingua”. Oltretutto è pieno di passaggi in cui il narratore dice testualmente (e in russo) “dice in francese” seguito da un virgolettato in russo. E poi ci sono tanti altri passaggi dove ai protagonisti francesi gli si lascia parlare la lingua di Puskin, mentre in situazioni “poco salottiere” ci sono russi che si dilettano col francese. Insomma l’uso del francese mi sembra poco congruo. L’editor non è il mio mestiere, ma un po’ di dubbi in merito mi restano in testa.

Per non parlare del “sermone” finale. Dopo oltre 1380 pagine in cui Tolstoj si è sapientemente diviso tra la Storia e l’uomo, tra le grandi manovre militari e le piccole manovre di salotto, chiude la storia delle famiglie Bolkonskj, Rostov e Bezuchov con un happy end molto edificante: la piccola Natasha che all’inizio della storia ha appena quindici anni alla fine sarà una matura matrona russa con tre figli e un marito per cui essere devota e adorante. Credi a quel punto di essere arrivato alla fine. Te l’ha già spiegato in più punti che gli storici di professione sono quasi tutti degli emeriti imbecilli (soprattutto quelli che hanno incensato il genio militare napoleonico). Quindi non credi ci sia bisogno di aggiungere altro.  E invece torna sul tema della Storia e delle storie. Continua a ripeterti per altre quaranta pagine che le azioni dei personaggi in guerra sono assolutamente svincolate da qualsiasi forma di libero arbitrio e che dietro a tutto c’è un disegno divino e un destino imperscrutabile, con anche l’aiuto di una sorta di volontà collettiva.

Mai pagine furono più faticose. Leggevo cose già scritte. Ritrovavo frasi e concetti già seminati lungo tutto il lunghissimo (e bellissimo) romanzo. Ce n’era proprio bisogno? Non potevamo tenerci la chiusa con il povero (si fa per dire) orfano di Andrej Bolkonskj che dice “Mio padre, mio padre! Sì, farò cose delle quali anche lui sarà contento…”?

 

*Ovviamente le mie considerazioni valgono per l’edizione originale del romanzo e per la traduzione Einaudi che, come la prima, rispetta il bilinguismo. Ci sono tante ottime edizioni tascabili italiane di Guerra e pace che hanno evitato questa aderenza all’originale traducendo anche i brani originariamente in francese. Il “pistolotto” finale, però, ce l’hanno anche loro.

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