Murakami? Meglio tornare a Swift o a Wallace
Mi sono tolto la curiosità. Finalmente. Durante le frequenti incursioni in libreria mi capitava sempre di gettare uno sguardo a quel lungo scomparto pieno zeppo dei titoli di Haruki Murakami. I suoi libri sono pubblicati da Einaudi. Sono tanti e tutti presenti in libreria in grande numero di copie. Una cosa che, a ben guardarsi intorno, capita soltanto ad alcuni autori di culto o a qualche “principe del catalogo”. Dickens, solo in parte, Balzac in minima porzione, e poi tra i più recenti Calvino, Primo Levi, e in parte Svevo. Una cosa che, a ben guardare non capita nemmeno per “pezzi grossi” del calibro di Philip Roth o Ian McEwan. Che fortuna, pensavo tra me, che ha questo scrittore giapponese. Praticamente tutto il suo personalissimo catalogo è in commercio. E il lettore può spaziare con enorme comodità tra i suoi titoli, recenti e lontani.
Murakami è molto popolare, si sa. Molto apprezzato da una vasta fetta del pubblico delle librerie. Però non mi sono mai convinto a prenderne in mano uno dei suoi titoli. La mia perplessità era dovuta a quei commenti negativi che tra addetti ai lavori, o lettori incalliti, comunque capita di sentire. Di detrattori, insomma, lo scrittore giapponese ne ha. Anche se in numero ovviamente risibile rispetto a quello dei suoi fan. Poi un giorno, praticamente per caso, ti capita di ascoltare uno scrittore che ammiri molto (in questo caso Marco Lodoli) dire durante una conversazione privata che ha apprezzato molto il romanzo Kafka sulla spiaggia, che ne è rimasto piacevolmente sorpreso. Questo ti basta per vincere l’ultima riserva e per cogliere al volo il modo di soddisfare una curiosità che durava da tempo.
Ovviamente non ho avuto nessuna difficoltà a trovare il volume in questione anche se in Giappone è uscito nel 2002 (se andate a cercare in libreria un romanzo vecchio anche solo di diciotto mesi di un altro autore pur conosciuto e apprezzato non sarete altrettanto fortunati). E quindi mi sono messo a leggere.
Questa era soltanto la premessa. Il resto si potrebbe riassumere con il lapidario titolo che la Minimum Fax scelse per una raccolta di articoli di David Forster Wallace: Una cosa divertente che non farò mai più. Nel mio caso la parola “divertente”, però, è di troppo. Magari gli altri romanzi di Murakami avranno ben altro spessore. Magari saranno riusciti. Magari sono indimenticabili. Certo è che Kafka sulla spiaggia si è rivelato una delusione molto forte.
E’ un romanzo di formazione, a suo modo, che non rinuncia, però, a vestirsi dell’abito del realismo magico tanto caro all’autore, da quello che apprendo documentandomi su Murakami. Ha come protagonisti un ragazzino di quindici anni, “maturo e determinato come un adulto”, e un vecchio “con l’ingenuità e il candore di un bambino”. Il ragazzo scappa da casa per sfuggire a un padre scultore “geniale e satanico” e alla sua “profezia che riecheggia e amplifica quella di Edipo”. I virgolettati li prendo dalla presentazione che del libro fa il suo ottimo traduttore Giorgio Amitrano e che compare sul sito della Einaudi. “Mentre ci perdiamo nei vertiginosi meandri della vicenda – scrive ancora Amitrano –, abbiamo l’impressione che Murakami stia scoprendo la storia insieme a noi, viaggiando sulle tracce di Kafka e Nakata con la stessa nostra curiosità, stupore e sete di avventura. Si legge Kafka sulla spiaggia come il suo autore deve averlo scritto: con la sensazione di entrare a occhi aperti in un sogno visionario e risonante di profezie, dove le scoperte e le rivelazioni si susseguono, ma il cuore più profondo resta segreto e inattingibile”.
Mi dispiace contraddire Amitrano. O meglio vorrei semplicemente dire che quanto scrive non è valso per me. Perché se è vero che si ha l’idea di entrare in un sogno visionario, proprio come in un sogno mancano punti di riferimento, mancano costruzioni narrative solide e soprattutto accettabili dal punto di vista non dico del buon senso ma almeno del senso romanzesco e letterario. Anche il finale (evito di svelarlo non soltanto per non togliere il piacere della lettura ad altri ma anche perché non ne ho capito il senso) è soltanto accennato come se fosse visto attraverso una lastra opaca. Dove le cose più che vederle si intuiscono e basta. O, peggio, si deducono. Non entro nel merito del realismo magico. Ignoro se abbia un significato preciso nella cultura letteraria giapponese. Certo quello tutto nostrano, di bontempelliana memoria, era ed è tutt’altra cosa. Murakami mi sembra uno scrittore non per lettori forti, bensì per lettori deboli che si possono blandire con un niente. Con trovate ad effetto e con il sommario tratteggio di facili situazioni romantiche.
La curiosità ora me la sono tolta. E al contempo mi è tornata la voglia di rileggere Wallace e il suo reportage sui viaggi in crociera. Dell’autore di Infinite Jest, il suo collega Jeffrey Eugenides ebbe a scrivere, sempre a proposito di Una cosa divertente che non farò mai più: “Se volete sapere quale scrittore tiene alta la tradizione del comico – passata in eredità da Sterne a Swift, a Pynchon – be’ questo scrittore è Wallace”. Avendo già letto Wallace, posso confermare le parole di Eugenides. E visto che parliamo di un classico contemporaneo so che reggerà la “prova” della seconda lettura