“La cosa più radicale che una donna possa fare è vivere”. Siamo a pagina 220 del romanzo La vita che non vedi di Kim Echlin (Einaudi). A parlare è Katherine una delle due protagoniste della storia. E’ al telefono con l’altra protagonista: Mahsa. Le sta chiedendo di raggiungerla a New York. C’è la possibilità di suonare insieme. C’è la possibilità di coronare un sogno, cullato e coltivato per tutta una vita. Di fronte agli eventuali dubbi dell’amica, le ricorda che ormai è una donna emancipata, affrancata anche dal ruolo di mamma (visto che i figli sono cresciuti).  E poi chiude il ragionamento proprio con questa frase: “La cosa più radicale che una donna possa fare è vivere”.  Non siamo però  in presenza dell’ennesimo romanzo femminista (che poi a dire il vero non sono così tanti). La canadese Echlin ci offre al contrario un doppio romanzo di formazione, con un elemento in comune: la musica jazz. Mahsa viene dal Pakistan. Anzi da lì è fuggita dopo che un parente troppo povero e troppo ottuso le ha ucciso la madre e il padre per la vergogna di vedere la congiunta sposata nientemeno che con un ingegnere americano. Katherine è canadese. Il suo problema sono quei capelli lisci come spaghetti.  Retaggio di un padre (cinese) che non ha mai conosciuto. Già, perché anche nell’illuminato Canada degli anni Cinquanta le coppie miste non erano gradite. Tanto che la madre fu prima arrestata e poi internata per la terribile colpa di amare un immigrato cinese.

Mahsa e Katherine si ritrovano a crescere tra mille difficoltà. Non solo materiali. Devono sconfiggere i pregiudizi e la prepotenza del potere maschile. E soprattutto devono riuscire ad affermare la loro inesauribile passione per la musica jazz e per il pianoforte. Tra figli, mariti, amanti che, anche senza intenzione, cercano di tenerle lontane dai loro sogni. La Echlin, che ha studiato con particolare passione il background delle due protagoniste, le segue nell’arco della loro vita. E le aiuta, quasi, a emanciparsi e a realizzare la profonda verità insita nella passione stessa: finché c’è vita c’è musica e finché c’è musica c’è gioia.

Il romanzo, però, mi ha incuriosito per un altro motivo. Pur volendo esaltare l’universo femminile, pur volendo andare in profondità nello scandagliare la sensibilità e le problematiche delle donne, la Echlin non mette mai alla berlina l’uomo. Eppure di tipi rozzi, retrogradi e violenti nel racconto se ne trovano (a iniziare dallo zio che uccide la madre di Mahsa, per finire proprio col marito di quest’ultima, marito che è stata peraltro costretta a sposare).  Katherine e Mahsa non odiano e non si vendicano. Semplicemente cercano, per quanto le forze glielo consentono, di andare avanti e di tentare di dare un senso alla loro vita. Sì, ci può essere rivalità e antagonismo, ma non una vera guerra. Le donne di Echlin non colpevolizzano mai il genere maschile, non ci sono pregiudizi, anche se proprio i pregiudizi altrui hanno segnato in maniera indelebile i loro destini. La Echlin insomma sembra mettere in pratica un aforisma attribuito a Quentin Crisp: “La guerra dei sessi è l’unico tipo di guerra in cui i nemici dormono regolarmente insieme”. Ciò di cui infatti si sente oggi la mancanza sono proprio romanzi dove non venga nascosto nulla delle sofferenze, dei pregiudizi e della difficoltà che caratterizzano i percorsi di vita delle donne, senza per questo ridurre l’altro sesso (quello maschile) al paradigma del male. E forse, ci sarebbe bisogno anche di altri romanzi di formazione virati al rosa. Non sono poi tanti nella storia della letteratura moderna. Ed è un peccato. Perché a pensarci bene i romanzi di formazione non soltanto illustrano la crescita di un personaggio, il suo trovare un posto nel mondo, il suo incidere attivamente sulla realtà che lo circonda, ma ne esaltano anche il trionfo, dopo averne elencato le difficoltà. Se è pur vero, come sostiene qualcuno, che la letteratura – quella vera – agisce su terreni ben più complessi della politically correctness, è altrettanto palese che le eroine dei romanzi di formazione sono poche. E ancor meno sono quelle che – come i personaggi straordinariamente descritti da Kim Echlin -, vivono l’orgoglio di genere senza demonizzare il diverso da sé.

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