Se fatta bene, se compiuta con passione, la radiocronaca di una partita di calcio può essere un’esperienza altamente letteraria. Ci sono radiocronache (mi vengono in mente, per esempio, quelle di Sandro Ciotti) che possono reggere tranquillamente il confronto con i più bei passi dei Promessi Sposi. Oggi, purtroppo, le radiocronache hanno ceduto il passo alla televisione. Ormai tutti i canali, soprattutto quelli della pay-tv, propongono partite a tutte le ore per tutti i giorni della settimana. Con giornalisti che non hanno bisogno di raccontare quello che vedono. Soprattutto non hanno bisogno di essere chiari e precisi. Accanto a loro, spesso, c’è un esperto che proprio su quei campi ha svolto la sua carriera di calciatore. I telecronisti oggi parlano di schemi, analizzano i gesti tecnici e sciorinano statistiche. Difficilmente, però, le loro parole senza quelle immagini potrebbero ammaliare. Le voci di Enrico Ameri e Niccolò Carosio, e soprattutto quella bassa, calda, rauca e profonda del già citato Ciotti erano, invece, capaci di far innamorare l’ascoltatore. Per le cose che dicevano, ovviamente. Soprattutto per i giri di parole, per i virtuosismi retorici, per una proprietà di linguaggio fuori dal comune. Ecco perché mi riesce difficile, oggi, a lettura ultimata dell’ultimo romanzo del Premio Strega Tiziano Scarpa, credere alla Nota posta in fondo a Il cipiglio del gufo (Einaudi). “Questo è un romanzo. La storia, l’ambientazione, i personaggi, i loro nomi e cognomi, quello che succede dentro e fuori di loro: è tutto inventato”. Anzi. Verrebbe da essere sospettosi proprio in virtù della Nota (excusatio non petita, accusatio manifesta dicevano i romani). Come già nei precedenti romanzi, Scarpa si mette a giocare con tutte le possibilità che gli offre la lingua letteraria e il canone romanzesco. Gli piace osare. Gli piace vedere il romanzo come un laboratorio. Come un banco di prova. Come un moltiplicatore di possibilità. E tra i personaggi che popolano questo libro c’è anche un radiocronista, anziano ma famoso. Soprattutto per la sua inconfondibile voce. E per la proprietà del suo linguaggio. Capace, come nessun altro, non soltanto di raccontare gli eventi, ma addirittura di dare agli ascoltatori l’idea che quegli stessi eventi siano proprio le parole a provocarli. Ogni volta che nel romanzo compariva Nereo Rossi (questo il nome del personaggio) io però pensavo subito a Sandro Ciotti. E credo che dietro il personaggio ci sia lui, come modello autentico. Forse Scarpa non può confessarlo apertamente.  E tra lo stesso Scarpa e il genio delle radiocronache, poi, c’è più di un legame. C’è proprio una comune ambizione. Basti vedere cosa dice lo stesso Nereo Rossi in un suo diario privato a proposito della sua ultima “prestazione”: “Feci quello che dovevo fare. Descrissi. Circumnavigai i miei giri di frase; tirai a lucido loschi modi di dire facendoli sembrare nuovi di zecca per l’occasione… mescolai l’inaudito al banale… tartassai senza requie la metrica infantile di una filastrocca improvvisata… coagulai complicati concetti in un’unica interiezione”. E’, secondo voi, l’ambizione di un radiocronista o piuttosto quella di uno scrittore? Direi quella di uno scrittore che arriva a immaginare vette incredibili di soddisfazioni nella stessa ambizione del suo personaggio. Come quando questi confessa di essere stato assoldato da una società di calcio importante per fare la cronaca degli allenamenti. “Per quale motivo?” chiede Nepomuceno Diaz, il giovane ghost writer chiamato a scrivere l’autobiografia del celebre radiocronista. “Be’, li spronoava a essere all’altezza delle mie parole” risponde Nereo Rossi.

Il romanzo di Scarpa intreccia le storie di alcuni personaggi nella Venezia di oggi. Usando un registro da commedia, senza mai dimenticare i suoi esercizi di stile. Racconta di una società al collasso. Una società che vive il presente come se fosse un aneddoto da raccontare o un’immagine da riversare sui social network. Dei tanti personaggi, quello che più mi ha colpito di più è proprio Nereo Rossi. O forse no. Forse ad avermi ammaliato maggiormente è il narratore/scrittore. Che interviene più volte a gamba tesa sul destino dei suoi personaggi, che fa finta di simpatizzare con loro per poi tradirli all’ultimo. Che fraternizza ma non troppo, innamorato com’è soltanto dell’ironia della sorte romanzesca. Già mi è capitato di parlare di Tiziano Scarpa per  Il brevetto del geco (Einaudi, 2016). Oggi come allora il primo confronto utile è quello con Laurence Sterne. Come già due anni fa, anche in questa nuova prova narrativa Scarpa sonda alcune potenzialità della scrittura letteraria che ricordano gli esperimenti del “padre” di Tristram Shandy.  Poi alcune suggestioni, alcune atmosfere e i vezzi di qualche personaggio mi hanno ricordato un romanzo di Alessandro Baricco (Mr Gwyn, Fetrlinelli). Lì il personaggio del titolo è uno scrittore in crisi che rinnova la sua stanca ispirazione convertendosi a pittore di ritratti verbali. Un omaggio, quello di Baricco, alle inesauribili possibilità dell’arte della parola. Il risultato però non è convincente. Soprattutto perché dietro quella costruzione romanzesca non si leggeva l’urgenza di una domanda, la necessità di una provocazione come invece avviene ne Il cipiglio del gufo e ne Il brevetto del geco.

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