Te lo trovi sulla destra quando sali in macchina da Malles. Il vecchio campanile di Curon svetta nell’azzurro del bacino solo leggermente increspato dal vento. Un elemento disturbante cui però l’occhio del turista o del villeggiante si abitua in fretta. Intorno trova soltanto barche a vela, carovane di turisti e fanatici del nord walking che ambiscono a raggiungere Passo Resia. Dietro la pace che trasmette il silenzio del lago artificiale, dietro lo sguardo placido dell’Ortles, nessuno può oggi immaginare quante sofferenze, quante tragedie si siano consumate settant’anni fa da quelle parti. Ecco perché leggere Resto qui, l’ultimo romanzo di Marco Balzano (Einaudi), può servire a farsi un’idea meno vaga di quanto accaduto da queste parti durante la seconda guerra mondiale e poi, a guerra finita, con la costruzione della diga che ha sommerso il paese di Curon e la frazione di Resia. Sono certo che quello di Balzano (già vincitore nel 2015 del Premio Campiello con il romanzo L’ultimo arrivato, pubblicato da Sellerio) è un libro che non smetterà di dare il suo contributo. E’ un romanzo che può essere letto da qui a cinquant’anni senza perdere la sua funzione, senza rinunciare alla sua ambizione. Il romanzo racconta la storia di Trina e di Erich, della loro vita fra i monti della Val Venosta nel Sudtirolo dove l’arrivo del fascismo stravolge abitudini, mina le poche certezze della cultura contadina e offre la visione di un mondo incattivito e di una burocrazia cinica. Trina ha studiato. Trina vuole diventare un’insegnate ma arriva al diploma proprio quando viene bandito l’insegnamento del tedesco. Da qui Balzano ci offre, attraverso la famiglia di Trina, un piccolo compendio di storia sociale dell’Alto Adige: le scuole clandestine nelle cantine e nei fienili, il confino per i riottosi che si ostinano a credere nella proprio cultura, e poi la guerra. Quella seconda guerra mondiale che tra le montagne sopra Merano e Bolzano ha rappresentato un elemento di disturbo e di alienazione davvero incredibile. C’era chi giurava fedeltà al Reich, chi partiva per la Germania (consapevole che non andava certo a fare la bella vita), chi per la stessa paura restava, chi si dava alla macchia per non andare a combattere e a morire a fianco di soldati italiani che non capiva e dai quali veniva regolarmente preso in giro e isolato. Poi c’erano le donne che dovevano tirare avanti nei masi per non far morire il bestiame e per non mandare tutto in malora. E poi c’era la Montecatini. Che proprio nel ’39 iniziò a fare i rilievi per la costruzione della grande diga. Una piccola porta – sostenevano – per entrare nel progresso. Una grande tomba d’acqua per tutte le famiglie di Curon e Resia che avrebbero perso sotto tutta quell’acqua la loro memoria. Balzano affida a Trina il racconto. E usa lo struggente espediente di una figlia partita e mai più tornata alla quale dedicare un diario.
A fine lettura si guarda con un occhio nuovo quel campanile di Curon. Il romanzo aggiunge un piccolo risarcimento alla storia misconosciuta della regione. Qui in Val Venosta le ragioni del cuore e della natura madre sono state calpestate in nome di un progresso che spesso è foriero di un corrivo inquinamento. E le ferite di una cultura calpestata in nome della “purezza” italiana (portata avanti da carabinieri e manovali meridionali) se pur hanno smesso di sanguinare non si sono mai rimarginate. E poi c’è la fede, un sentimento religioso forte. E anche qui Balzano assegna un premio proprio alla Chiesa cattolica e lo fa per voce del protagonista. “Chi ha difeso la nostra lingua quando i fascisti la calpestavano e ci rifilavano la loro scuola? Chi è rimasto a difendere il Sudtirolo? I politici, l’Italia, l’Austria hanno fatto a gara a lavarsene le mani. Solo la chiesa si è occupata di noi”.
Poi c’è anche la metafora di un paese, Curon, che si lascia annegare per ignoranza (dei bizantinismi della burocrazia italiana) e per ignavia. I compaesani di Erich e Trina erano “assetati di tranquillità”. Lo sapeva bene il capomastro della Montecatini. Aveva girato il mondo ed era tranquillo che anche lì, in quel piccolo borgo della Val Venosta, il lavoro si sarebbe portato a termine senza troppi problemi. Era stato in giro per il mondo. Dovunque aveva “sgombrato paesi, sventrato quartieri, abbattuto case per far passare binari e autostrade, gettato colate di cemento sulle campagne, fatto costruire fabbriche lungo il corso di fiumi. E il suo lavoro non andava mai in crisi perché cresceva dove c’era la fiducia inerte nel destino, la fede assolutoria in Dio, l’incuria degli uomini assetati di tranquillità”.
Insomma, parafrasando il celebre verso di Giorgio Gaber, anche laddove i contadini vogliano conservare il loro piccolo status quo, la libertà di farlo deve sempre essere partecipazione. Altrimenti la macchina cieca di una burocrazia anodina inibirà anche quella pur modesta ambizione di tranquillità.

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