Questo è il resoconto di una sconfitta. La nostra. Abbiamo perso la memoria. E abbiamo perso la capacità di portare i nostri figli a seguire le nostre tracce, soprattutto quando abbiamo la convinzione  (la presunzione?) che siano scavate nella giusta direzione. Questo resoconto porta ad una conclusione amara: i tredicenni di oggi non riescono a leggere quei romanzi che ci hanno formato come uomini e come cittadini quando, 30 o 40 anni fa, avevamo la loro età. Ma andiamo con ordine. I professori di italiano di una scuola media si sono messi d’accordo e hanno assegnato ai loro studenti di terza la lettura del romanzo Il giardino dei Finzi-Contini. Giorgio Bassani (già Premio Strega a metà degli anni Cinquanta con Cinque storie ferraresi), lo pubblica nel 1962 con Einaudi. Fin da subito riceve il favore del pubblico e della critica (vince anche il Premio Viareggio). E nel giro di pochi lustri diventa un classico contemporaneo. Uno di quei libri su cui le nuove generazioni sono sempre passate. Per capire qualcosa di noi, della nostra storia recente; per entrare nel vivo della dolorosa pagina della Shoah; per capire molto sulla natura umana e sulla delicatezza dei sentimenti. Insomma un libro di formazione.  Purtroppo le speranze dei professori di questa scuola media si sono rivelate mal riposte. Quasi tutti gli studenti, nei loro resoconti scritti, hanno dimostrato (nel migliore dei casi) una lettura distratta. Molti hanno dimostrato di aver visto soltanto il film (e anche questo con poca attenzione) di Vittorio De Sica. Non è stato difficile, infatti, per i professori, notare che le differenze della pellicola rispetto al libro venivano d’ufficio attribuite al romanzo stesso.

Ho voluto, quindi, cogliere l’occasione  per riprendere in mano questo “classico novecentesco”. Con lo scopo di cercare di capire se e quanto sia lontana la sensibilità dei ragazzi di oggi da quella che potevano avere, per esempio, i loro coetanei che si sono affacciati all’adolescenza sulla soglie del Sessantotto e che il libro di Bassani hanno apprezzato e letto con profitto.  Più mi immergevo nella lettura di questo capolavoro più rimanevo abbagliato dalla sapienza dell’autore. Dalla sua capacità di modulare una voce sempre autentica, pur se veicolata da una lingua altamente controllata e elegante. Bassani ha impiegato molti anni per limare questo romanzo. Mi viene da pensare che  la storia fosse facile da raccontare per l’autore (in fondo è quasi un racconto autobiografico). Il difficile era semmai modulare il tono della voce del narratore. Su tutti emerge evidente il modello proustiano legato alla memoria. Al ricordo che rende il narratore parte della storia e a un tempo distaccato e lucido osservatore.  Più andavo avanti con la lettura più mi rendevo conto che la vita aristocratica e “separata” dei Finzi Contini, il sentimento non corrisposto del narratore per la bella Micol e l’ombra della Storia con i suoi terribili precipizi sono temi ancor oggi suggestivi. Peccato, però, per quella lingua così dolce e suadente, quel dettato così composto ed elegante, e quei continui riferimenti e citazioni che di sicuro hanno spazientito e frustrato più di un giovane lettore.  Il libro, come si sa, inizia con un prologo nel quale si misurano da subito le affinità che sussistono tra lettore e narratore. Il racconto, infatti, procede confidando nel presupposto che il lettore abbia voglia di fermarsi ad ascoltare la storia dell’aristocratica famiglia ferrarese dei Finzi Contini. C’è qui, insomma, una predisposizione umanistica. C’è  la voglia di fermarsi a prestare attenzione, a capire, a conoscere, a gettare la luce su un angolo in ombra della nostra Storia. Ed è proprio questa predisposizione all’ascolto, alla voglia di sapere qualcosa che si ignora, di voler allargare il proprio orizzonte che sembra del tutto mancare oggi. I ragazzi si aspettano anche dai libri una rapida sospensione dell’incredulità. Si aspettano di essere gettati precipitosamente in un’atmosfera romanzesca piena di azioni e di colpi di scena. Figuriamoci quanto possa frustrarli la descrizione di un giardino incantano come quello nascosto dietro le mura di cinta che si affacciano su Corso Ercole I d’Este a Ferrara. Per non parlare della tante citazioni disseminate lungo il testo. Siamo sicuri che un ragazzino di oggi possa sapere chi è la signora Emily Dickinson e perché si debba fare una tesi di laurea su questa “campionessa di zitellaggine”? E le poesie di Giovanni Prati? E le criptocitazioni dantesche? A un adulto che abbia alle spalle studi liceali non riesce difficile immaginare che il gran rifiuto sia quello di un papa (Celestino V). Ma a un ragazzino di oggi? Siamo sicuri che un tredicenne potrebbe cogliere la bellezza di una pagina come quella in cui il narratore e Alberto Finzi Contini spettegolano paragonando i loro amici ai personaggi delle poesie di Ungaretti e di Saba (senza nemmeno nominarlo, semplicemente ricordando il verso di una sua celebre poesia: A mia moglie). E poi che dire dell’intenzione, anzi dell’ambizione del giovane narratore di laurearsi con il celebre storico dell’arte Roberto Longhi, autore di un imprescindibile studio dal titolo Officina ferrarese? Senza dimenticare le pagine dedicate al celebre cimitero ebraico di Venezia e senza scordare poi le parole che proprio nel prologo vengono usate per le tombe etrusche e il monumento funebre dei Finzi Contini, il cui raffronto ha dato la stura al fiume di ricordi del narratore, un po’ come la madeleine proustiana che nessun ragazzino di oggi scambierebbe con le tanto amate merendine confezionate.

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