Può capitare, come è capitato a me, di trovare una spietata critica al reddito di cittadinanza là dove meno te lo aspetti. Nel mio caso è successo esattamente a pagina 32 de La filosofia nel boudoir (edizione Oscar classici Mondadori, traduzione di Daniele Gorret). Bisogna procedere, però, con ordine altrimenti la cosa si fa troppo ingarbugliata anche per il lettore più attento. La filosofia nel boudoir è una delle opere più provocatorie di Donatien Alphonse Francois De Sade. Tra i pochi testi pubblicati in vita dall’autore, il romanzo uscì a Parigi in forma anonima nel 1795. Qui De Sade descrive l’iniziazione al piacere della giovanissima Eugénie da parte di un precettore privo di scrupoli come il bisessuale Dolmancée, descritto come maestro di lussuria. Nel suo compito quest’ultimo si fa aiutare dalla padrona di casa Madame de Saint’Ange e dal fratello della nobildonna, il cavaliere de Mirvel, bello e aitante e come i suoi complici assolutamente immorale e privo di scrupoli. Il testo vuole essere una sorta di contromanifesto, dove la morale viene ribaltata completamente e il buono diventa cattivo e dove il piacere si scambia di posto con il dolore. I tre riescono nell’intento di iniziare la giovanissima Eugénie ai piaceri e al crimine, conducendola di buon passo lungo la strada della depravazione, della blasfemia e della scelleratezza. Nella reclusione del boudoir, i personaggi sadiani mettono in scena il rovesciamento della morale comune. Quel rovesciamento che, però, costò all’autore il carcere comminatogli sia dall’Ancien Regime che dai rivoluzionari. E il testo sostanzialmente si risolve in un serrato dialogo, intervallato da audaci (per l’epoca) descrizioni di accoppiamenti estremamente articolati e complicati. Il maestro di cerimonie e precettore Dolmancée non smette mai di parlare e di provocare. Nel suo modo di dirigere gli “attori” sembra il regista di un film porno e mentre detta ordini si avventura in monologhi dove la filosofia illuminista viene portata alle sue estreme conseguenze. La morale cattolica viene sovvertita in una blasfemia dissacrante. E la stessa morale comune viene derisa e capovolta fino a mettere sul piatto della bilancia la legge e l’interesse dell’individuo, facendo vincere quest’ultimo.

E ora torniamo alla nostra sorpresa di lettori che a pagina 32 si trovano di fronte una critica ben ponderata e motivata del reddito di cittadinanza. Insomma, il testo è dissacrante arrivando al punto di ammettere cose che anche la più semplice delle intelligenze riterrebbe insostenibili (la virtù dell’incesto, ad esempio, prendendo a esempio i casi biblici forniti da Adamo e Noè) e pur tuttavia dice no alla beneficenza senza costrutto. La beneficenza di cui parla Dolmancée equivale al nostro reddito di cittadinanza perché vuole (come ha solennemente annunciato Di Maio) sconfiggere la povertà. Però, spiega questo diabolico precettore alla sua giovane allieva: “abitua soltanto il povero a ricevere aiuti che fiaccano la sua energia; non lavora più e aspetta la vostra carità e, non appena gli manca, diviene ladro o assassino”.

Insomma, quello che ancor oggi è ritenuto l’ultimo dei classici (o il primo dei moderni), non incanta più con le sue provocatorie e paradossali tesi. Però pur in un testo così esageratamente provocatorio l’istinto al buon senso emerge laddove si parla di beneficenza. Per De Sade questa non è altro che “un vizio dell’orgoglio” piuttosto che “virtù dell’anima”. E uno Stato non può istituzionalizzarla perché il povero rischierebbe di approfittarne senza emanciparsi.  Il “divino marchese”, quindi, diventa il più liberista dei pensatori proprio là dove si affronta il problema sociale dell’economia. Insomma – sembra dirci De Sade – scherziamo pure sui santi, sulla morale, facciamo arrossire il lettore con le nostre porcate pornografiche, ma non scherziamo sull’economia e sul dovere di ognuno di noi di essere costruttore del proprio destino.

 

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