Il Proust d’America fa a pezzi la famiglia
“Non credo che la memoria menta per motivi futili. Il fatto è che la memoria tratta l’assoluto, i riassunti; tratta forme di conoscenza portatili, e così finisce per drenare cose che assomigliano più a motti, ad aforismi e ad apoftegmi che non a momenti reali”. Ci può essere sentenza più proustiana di questa? Se non è dell’autore della Recherche (e non lo è infatti), almeno è di qualcuno che quel testo ha davvero letto con estremo profitto. Tanto che questa stessa frase potrebbe essere il compendio esegetico più corto e più lucido che su quel capolavoro della letteratura novecentesca possa esserci. L’autore è Harold Brodkey (1930-1996), lo scrittore statunitense considerato dalla critica il Marcel Proust d’America (come lo battezzò Harold Bloom). Fin dalle sue prime prove, apparse sotto forma di racconto su riviste di prestigio come il New Yorker, Brodkey ha mostrato capacità di analisi dell’animo umano fuori dal comune, con un interesse particolare per la sfera affettiva e psicologica dell’infanzia. I suoi lavori non hanno la linearità e la compiutezza di storie (più o meno lunghe) romanzesche. Anzi, proprio come per il suo modello francese, la linearità del racconto è un ostacolo all’immediatezza del ricordo e della rielaborazione affettiva dello stesso. E in effetti, a ben vedere, tutta la sua produzione si riduce a una lunga storia dove i personaggi ritornano ciclicamente per affollare un microcosmo che non è altro che la ricostruzione in chiave letterariamente “classica” del vissuto dell’autore. Ci sono madri, ci sono matrigne, amici di strada, governanti, padri distratti e poco attendibili, primi amori. Per ognuno di loro la storia ricomincia da capo. Si assume il loro punto di vista, si ripetete tutta la giostra dell’analisi dei rapporti di forza e delle relazioni. Si chiede alla memoria un rinnovato sforzo per reinventare il vissuto secondo, appunto, categorie e schemi intellegibili. Le sue Storie in modo quasi classico (Mondadori) questo sono. E questo è anche il suo romanzo L’anima che fugge (da poco riedito da Fandango), che uscì per la prima volta nel 1991 dopo trent’anni di febbricitante attesa da parte della critica. L’anima che fugge (tradotto da Flavio Santi) esplora senza reticenze tutti gli aspetti interiori della vita di Wiley Silenowicz che, sulle soglie dei sessant’anni, fa un bilancio della sua vita. Orfano a due anni, nuovamente senza famiglia a sei, resiste ai danni dell’esistenza e agli abusi della sorella adottiva Nonie con la forza immaginifica della fantasia. Da questo speciale punto d’osservazione richiama a raccolta i fantasmi del passato indicandoli per nome, come per disfarsene. Le loro nevrosi sono il bersaglio verso cui indirizzare la sua prosa, che caricata di vendetta, si fa eccessiva, traboccante, insolente. Proprio come nei racconti che lo hanno preceduto, e che ne costituiscono l’humus più che fertile, questo romanzo non fa che scomporre e ricomporre sotto le mani dello scrittore americano il topos della famiglia come fucina di tutte le nevrosi moderne. Della madre adottiva, per esempio, il piccolo Wiley riconosce doti ineguagliabili ma anche la consapevolezza di una mancanza feroce di maternità. “Molte donne – diceva sempre la madre adottiva – sono migliori di me nell’allevare i bambini, ma io sono brava nell’aiutare i miei figli a essere realistici”. E nei confronti del padre è altrettanto impietoso Tanto che proprio in uno dei racconti che compongono Storie in modo quasi classico 2 (Mondadori, traduzione di Delfina Vezzoli) il piccolo Wiley confessa: “Direi che nessuno ha avuto un padre ideale, è un desiderio strampalato, triste”. Che poi proprio la cifra di Brodkey è assegnare alla voce di un ragazzino l’autorità e la profondità di un grande scrittore. Il suo flusso narrativo resta in bilico costante tra l’imprevedibilità dell’Ulisse joyciano e il paziente e caparbio sfruttamento della memoria di Proust. Inevitabilmente qualche critico lo ha definito il maggiore scrittore a stelle e strisce dopo William Faulkner (Gordon Lish). Di sicuro la sua scrittura è impervia perché costringe il lettore a precipitare in ogni capoverso in un pozzo di memoria quasi a sé stante. Un percorso, quindi, accidentato ma affascinante che fa di Brodkey un maestro e del suo romanzo L’anima che fugge un classico moderno.