Devo fare ammenda. Pubblicamente. Devo fare ammenda della superbia delle mie convinzioni. E devo fare ammenda per la mia debole memoria. Questo post è un atto riparatorio nei confronti di uno dei più celebri romanzi di Pier Paolo Pasolini: Ragazzi di vita (Garzanti). Devo questa pubblica ammenda a causa di un mio pregiudizio che ha fortemente compromesso la crescita culturale di mio figlio (liceale). La lettura di questo testo di Pasolini, pubblicato nel 1955 e da allora mai uscito dalle librerie (e già questa è una medaglia ), è diventato un compito a casa per la classe di mio figlio quattordicenne. Quando mi ha chiesto il libro prontamente l’ho recuperato dalla libreria e gliel’ho consegnato. Non prima, però, di lasciarmi sfuggire qualche mugugno critico. Non si potrebbe pensare a testi un po’ meno noiosi per dei ragazzini che a stento staccano il naso dal cellulare e che non sono più abituati, come lo eravamo noi alla loro età, a frequentare libri e giornali? E poi non c’è anche una letteratura gioiosa? Perché sempre testi che parlano di dolore, sofferenza, emarginazione? Le belle avventure, le parodie, le agnizioni e le trovate rocambolesche non hanno anche loro una forte impronta letteraria? Non hanno un alto valore educativo? Il mio pensiero è subito andato a feuilleton come Il conte di Montecristo, di cui ho parlato da poco in questo blog, ma anche a libri più divertenti come Il circolo Pickwick o Tre uomini in barca. Libri, questi ultimi, che ai nostri tempi leggevamo di nascosto e rubando tempo ai doveri scolastici ma che oggi, temo, potrebbero essere materia di studio per essersi estremamente abbassata la soglia di attenzione e di capacità alla lettura dei giovani millennials.

A lettura finita, mio figlio mi restituisce il libro. Preferisco non indagare su quanto il romanzo lo abbia interessato. Ragazzi di vita però rimane sul comodino e decido di leggerlo. Non rileggerlo. Non lo avevo mai letto a causa di questo pregiudizio alimentato da buona parte della critica e degli storici della letteratura. In tanti avevano espresso un parere negativo su questo primo episodio di una lunga stagione narrativa di Pasolini, bollandolo come esistenzialismo estetico. Sono andato a rivedere alcune pagine della celebre Storia della letteratura italiana di Cecchi e Sapegno (Garzanti) dove si parla addirittura di “oggettiva volgarità di alcune pagine”. E dove si possono ritrovare tutte le  etichette poi rimaste celebri tra cui forse la più robusta e duratura è quella dedicata alla scelta del registro dialettale come “espressività preculturale”.

Era sicuramente su questi e altri non generosi giudizi sul Pasolini romanziere che avevo fondato il mio pregiudizio. E invece, a lettura terminata, devo confessare che ho scoperto un libro che non immaginavo. Sapevo che il romanzo raccontava la vita del sottoproletariato urbano nei primi anni del dopoguerra a Roma. I protagonisti erano tutti giovani e giovanissimi delle borgate. Da Monteverde nuovo a Torpignattara, dal Quadraro a Portonaccio. Sapevo che parlavano in un romanesco un po’ forzato e demodé, e sapevo anche del loro vitalismo e della loro continua ricerca di qualcosa che spegnesse la fame di vita che avevano dentro. Però ignoravo che il romanzo corale era tenuto insieme da una tessuto narrativo molto resistente, ignoravo che Pasolini proprio con questo romanzo, avesse dato prova di un’abile capacità fabulatoria. Dimostrato anche dal fatto che senza strappi o fratture il romanzo si allunga lungo più di sei anni della vita di Riccetto  (tre dei quali passati dietro le sbarre per un furto non commesso) e degli altri ragazzi (Marcello, Alduccio, Begalone, il Lenzetta…). Anche il narratore, di tanto in tanto, si lascia scappare qualche parole dialettale. Partecipa con empatia vera della vita di questi personaggi che vivono una vita intensa ma alla giornata, senza sovrastrutture, totalmente emotiva.  Sicuramente qui l’aggettivo “preculturale” non dovrebbe essere un limite bensì un merito. Pasolini ci riesce ampiamente a eleggere a protagonisti di un romanzo personaggi che non pensano, non agiscono e non parlano mai come uno scrittore. E la loro adesione al vitalissimo mondo animale è così piena che anche la scena del duello tra i cani viene raccontato immaginando il dialogo tra i due quadrupedi che si affrontano sulle rive dell’Aniene come fossero due pischelli incazzati. Pasolini li antropomorfizza e questo rende tutti uguali. I cani, i ragazzi e una natura che  non riesce a essere incontaminata (perché fagocitata da una metropoli in veloce espansione) e pur non perde la sua indole selvatica. E sarà proprio la natura a condizionare un finale raccontato con la maestria del grande scrittore.

Sì, devo proprio fare ammenda. Ragazzi di vita è un grande romanzo. Evviva la scuola che ancora non perde la speranza di far avvicinare i ragazzi di oggi a capolavori come questo.

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