Nell’attesa che la pandemia si trasformi in una più innocua influenza endemica bisogna maturare dentro di noi una forte dose di pazienza. La “pazienza di Giobbe“ con cui sopportare ristrettezze, regole ferree, distanziamento sociale e mascherine. In un simile “clima” può essere utile, infatti, rifarsi alla celebre figura biblica. Magari attualizzata come quella proposta da Joseph Roth nel romanzo che prende il nome proprio dal celebre patriarca le cui virtù ed esempio sono esaltati dalla Bibbia.

Mi è capitato in mano in questi giorni l’ultima edizione di Giobbe, la diciannovesima che Adelphi ha mandato in stampa da quando, nel 1977 con la traduzione di Laura Terreni, ha rispolverato questo classico della letteratura tedesca, uscito per la prima volta nel 1930 e la cui prima edizione italiana si deve a Treves nel 1932.

Il moderno Giobbe risponde al nome di Mendel Singer. Un “uomo semplice”, come riporta il sottotitolo, devoto alla sua religione. Come suo padre e suo nonno, si guadagna un misero sostentamento insegnando la Torah ai bambini del villaggio (in un’indefinita area al confine tra Polonia e Ucraina ma, al tempo dei fatti raccontati, sotto il dominio dello zar). Ha una moglie, Deborah, e tre figli. E la sua vita procede nel grigiore di una devozione quasi meccanica fino al giorno in cui nasce Menuchim. Il quartogenito, però, è debole e fortemente menomato. Richiede una continua assistenza e una dedizione assoluta.

La povertà, però, incalza Mendel. Lo zar  vuole i suoi due figli maschi. La prima guerra mondiale è alle porte. E poi c’è Miriam, la bella e svagata figlia. I genitori non riescono a star dietro a tutti. E Menuchin assorbe ogni energia della madre. Quando Mendel si accorge che la figlia è ormai ampiamente sbocciata, divenendo il desiderio proibito di tutta la guarnigione di stanza nella provincia, decide di partire. Il richiamo di un’America libera e ricca è forte. Il figlio piccolo è lì che è riparato per sfuggire alla leva obbligatoria e chiama a sé tutto il resto della famiglia. Mendel e Deborah attraversano l’oceano col peso di aver abbandonato Menuchin, Miriam invece col sogno di una compiuta libertà.

Nel nuovo mondo il maestro non si ritrova. Resterà per sempre uno straniero che vede, per altro, il suo mondo familiare franargli intorno. E finisce, come nella parabola di Giobbe, col perdere la fede quando rimane solo.

Ma il miracolo è dietro l’angolo (non svelo ovviamente il finale). Il Signore, insomma, mette a dura prova la vita di Mendel e lo circonda di persone che riescono a vedere soltanto la miseria irrecuperabile della sua condizione, perché si tratta di persone che non hanno avuto in sorte un figlio minorato. D’altronde, come commenta il narratore di questa moderna e perfetta parabola chassidica, “solo chi non ha avuto disgrazie non crede nei miracoli”.

Il mondo con i suoi quotidiani e tragici bollettini della pandemia sembra sfibrare la nostra fiducia nella scienza. Ma il “miracolo” è dietro l’angolo. E bisogna osservare il mondo con rinnovata fiducia. Joseph Roth lo insegna meravigliosamente con questo piccolo capolavoro che non ha smesso mai (nel suo quasi secolo di vita) di commuovere generazioni di lettori. Ora potrebbe anche fornire nuova linfa alla nostra speranza. E, in un simile frangente, francamente non è poco.

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