Non si vive di soli classici. I grandi libri restano il faro più luminoso nella tempesta della vita. Si ha bisogno, però, anche di altro. Per esempio dei memoirs. Soprattutto di quelli scritti da premi Nobel che non hanno peli sulla lingua quando si trovano a riempire le pagine dei propri diari. Non si può, infatti, non sapere che in tutti gli scritti (anche quelli occasionali) gli autori e i “nomi noti” si trattengono e si autocensurano almeno un po’.  Perché “non si sa mai”.

La verità è nel verso poetico, nella prosa lirica e sicuramente nel tuffo dell’abisso dal quale escono i capolavori che tutti apprezziamo. Negli articoli, nei resoconti, nelle recensioni e nei giudizi pubblici i grandi autori sono però sempre un po’ reticenti. Chi più chi meno. Ecco perché è assolutamente rinfrescante – ogni tanto – fare quattro passi tra le pagine delle memorie. Soprattutto in quelle dove ci imbattiamo in ritratti di colleghi, affreschi di “salotti” o di scenari sociali.

Dopo tanti romanzi, avevo bisogno di memorialistica. E chi meglio di Elias Canetti, che del genere ci ha regalato degli autentici capolavori? Party sotto le bombe (Adelphi, nella traduzione di Ada Vigliani) già dal titolo si preannuncia ricco ghiotte promesse. Sono pagine di ricordi. I ricordi di un esule che proprio la guerra ha portato (anzi riportato, visto che era già stato lì bambino) in Inghilterra. Un luogo dove ha vissuto a lungo, tornandoci a più riprese anche quando aveva fatto già ritorno a Vienna.

La cosa più divertente di simili libri sono quei passaggi fulminanti e improvvisi in cui l’autore ti lancia un amo. Si tratta solitamente di nomi di altri autori per te sconosciuti. Appena chiuso il libro mi sono, per esempio, messo subito alla ricerca dei libri di Herbert Read. Scrittore inglese di inizio Novecento. Canetti lo descrive grande poeta ma soprattutto dice che è rimasto folgorato dai suoi racconti. E stesso giudizio entusiasmante lo offre per le “prefazioni” di George Bernard Shaw. Ne cito due non a caso, perché sono autori (o titoli come nel caso di Shaw) non disponibili sul mercato italiano. Ne ho citati soltanto due ma sono tantissimi. D’altronde Canetti ha frequentato i salotti letterari inglesi per quasi mezzo secolo. Ha conosciuto tutti e su tanti di loro offre ritratti a volte impietosi (come nel caso di Iris Murdoch e T.S. Eliot) altre volte entusiasmanti. Qui mi limito a ricordare il ritratto di Bertrand Russell che, secondo l’autore di Auto da fè, aveva “il viso illuminato dall’intelligenza e un inglese da gran signore colto del XVIII secolo. Si può dire che parlasse esattamente così come Horace Walpole scriveva le sue lettere. Ogni parola che gli usciva di bocca era piena e armoniosa, pronunciata in modo da non dar adito a equivoci. Dell’indolenza, con cui gli inglesi colti amavano mangiarsi le parole non vi era in lui alcuna traccia”.  Come si fa, leggendo queste parole, a non invidiare Canetti? Vi immaginate cosa sarebbe sentir parlare il celebre filosofo inglese? Sentirlo magari discettare di argomenti faceti con acribia e sense of humour? Sarebbe fantastico.

Si impara molto da libri come questo. Si tiene in adeguato allenamento, per esempio, la curiosità. Simili memoir ti fanno venire tante idee e il desiderio di rincorrere autori e titoli finora sconosciuti. Anche perché, come si diceva all’inizio, ci si fida con trasporto di giudizi che sono privi di alcun condizionamento.

Ma gli inglesi? Come ne escono fuori da questo ritratto? Secondo Canetti non bene. “Il peggio dell’Inghilterra è l’aridità, quella vita da mummie pilotate. Non è, come si pensa, l’atmosfera vittoriana (la maschera dell’ipocrisia si può sempre strappare e dietro ci ritrovi qualcosa), è piuttosto l’invito all’aridità, un’aridità che comincia con la moderazione e la rettitudine e termina nell’impotenza del sentimento”.

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